Dizionario del Cristianesimo
Indice
- Introduzione
- Filosofia
- La concezione aristotelica
- Epicurei, stoici e neoplatonici
- Da Agostino a Cartesio
- Sviluppi del concetto cartesiano di anima
- La critica kantiana e la negazione della sostanzialità dell’anima
- Teologia
- Antropologia culturale
Introduzione
Oggetto metafisico per eccellenza, almeno sino a Kant, della riflessione filosofico-religiosa svoltasi in area euro-occidentale, supportato da specifiche strutture linguistiche e mentali (che costituiscono in larga misura il fondamento di scienze come la psicologia propriamente detta, o di metodiche terapeutiche quali la psicoanalisi), l’universalità virtuale che siamo soliti riconoscere alla nozione di anima pare conoscere limiti significativi al di fuori del nostro abituale milieu culturale. Concetti rilevati in ambito etnologico o, più generalmente, psico-antropologico (dal doppio all’anima individuale “esterna” postulata dal nagualismo [= credenza in un nagual, un’anima individuale esterna alla persona fisica ritenuta un alter ego protettore, incarnato in un animale], alle esplicazioni particolari di principi vitalistici cosmici indeterminati, secondo le formulazioni consuete alle varie tipologie storiche di animismo), così come concetti, analoghi ma differenti, maturatisi presso le più disparate tradizioni di pensiero (quali l’âtman brahmanico o i principi di animazione universale postulati dall’ilozoismo [= dottrina in cui il principio vitale è originariamente intrinseco alla materia e non necessita e di un movente esterno per il suo divenire] o dal panpsichismo [= dal greco “tutto” e “anima”, nella sua forma più elementare il coincide con l’animismo]), sono altrettanti limiti a un’articolazione razionale e univoca, almeno nei suoi presupposti basilari, dell’idea di anima come sostanza.
Filosofia
In generale, il principio della vita, della sensibilità e delle attività spirituali (comunque intese e classificate), in quanto costituente un’entità a sé o sostanza. L’anima può essere ritenuta incorporea o corporea; ma anche in questo secondo caso, se cioè le si attribuisce la stessa costituzione delle altre cose del mondo, è ritenuta di regola una sostanza, cioè una realtà a sé, che esiste indipendentemente dalle altre. La storia filosofica di essa è in prevalenza la reiterazione della realtà dell’anima nei termini di quei concetti che ogni filosofo assume per definire la realtà stessa. Sicché, per esempio, l’anima (in greco psyche) è fuoco per Eraclito che vede nel fuoco il principio universale; per Democrito è formata da atomi rotondi, che possono più agevolmente penetrare nel corpo e muoverlo. Platone affermò che l’anima è semplice, incorporea, si muove da sé, vive e dà vita e si distingue dalla realtà corporea che ha i caratteri opposti: queste determinazioni dovevano servire di base a tutte le ulteriori trattazioni filosofiche dell’anima.
La concezione aristotelica
Tra esse, quella di Aristotele è la più importante perché le determinazioni che il filosofo attribuisce all’essere psichico dovevano lungamente rimanere il modello di buona parte delle dottrine dell’anima. Secondo Aristotele, l’anima è la sostanza del corpo. Essa è definita come “l’atto finale (entelechia) e primo di un corpo che ha la vita in potenza”. Perciò l’anima non è separabile dal corpo o almeno non sono separabili dal corpo quelle parti dell’anima che sono attività delle parti del corpo; la parte intellettiva dell’anima che egli chiama “un altro genere di anima” è la sola separabile. Quindi, mentre il corpo non è l’atto dell’anima, l’anima è l’attività di un corpo determinato cioè la realizzazione della potenza che è propria di questo corpo: onde si può dire che essa non esiste né senza il corpo né come corpo.
Epicurei, stoici e neoplatonici
La determinazione dell’anima come sostanza non viene negata neppure dai materialisti. Epicuro, che ritiene l’anima composta di particelle sottili, afferma tuttavia che l’anima abbia la capacità causativa della sensazione, di cui il corpo partecipa, ma che è in una certa misura indipendente dal corpo stesso. In modo analogo gli stoici ritengono che l’anima è un soffio congenito in noi, ma che può tuttavia essere immortale, com’è certamente immortale l’anima del mondo (vedi oltre), di cui sono parti quelle degli esseri animati. Plotino, invece, critica egualmente sia la dottrina che l’anima è corpo sia la dottrina che l’anima è forma del corpo accentuandone i caratteri divini: la sua unità, indivisibilità, ingenerabilità e incorruttibilità. La via d’accesso alla realtà dell’anima consiste nel ritirarsi nella propria interiorità. In tal modo la nozione di coscienza, intesa come introspezione, per opera di Plotino apre l’altra alternativa della dottrina dell’anima.
Da Agostino a Cartesio
È soprattutto sant’Agostino che raccoglie l’eredità del neoplatonismo e la trasmette al mondo cristiano, con il riconoscimento dell’interiorità spirituale come via d’accesso privilegiata alla realtà propria dell’anima. La Scolastica, più tardi, è dominata nel suo complesso dalla dottrina aristotelica dell’anima, che viene riproposta quasi negli stessi termini a partire da Scoto Eriugena sino a Duns Scoto. Solo la Scolastica del ‘300 avanza con Occam il dubbio sulla realtà dell’anima intellettiva. Occam relega tra le materie di fede non solo l’immortalità dell’anima (come aveva già fatto Duns Scoto), ma la realtà stessa dell’anima intellettiva come supposto soggetto delle operazioni spirituali di cui abbiamo esperienza. Questa negazione è fatta proprio sulla base dell’esperienza che si ha dei propri atti spirituali (intellettivi e volitivi): esperienza che, per Occam, è una conoscenza intuitiva di natura spirituale (cognitio intuitiva intellectiva). L’esperienza interna doveva diventare con Descartes il punto di partenza della filosofia moderna. La nozione dell’anima come sostanza sopravvive alla crisi del Rinascimento. Né il materialismo di Telesio e di Hobbes costituisce vera e propria negazione della sostanzialità dell’anima. Hobbes dichiara illegittimo il passaggio operato da Descartes dalla proposizione “Io sono una cosa che pensa”, che è indubitabile, alla proposizione “Io sono una sostanza pensante”: giacché non è necessario che la cosa che pensa sia pensiero, ma può essere il corpo stesso (III Objections, 2).
Che l’anima sia una “cosa”, cioè una realtà, non viene negato dall’interpretazione materialistica di essa. Per ciò che riguarda la nozione di anima nel mondo moderno, lo sviluppo decisivo si ha comunque con Descartes, nella cui dottrina la riaffermazione della realtà dell’anima si unisce al riconoscimento di una via d’accesso privilegiata a tale realtà. Questa via d’accesso è il pensiero o per meglio dire la coscienza. In tal modo Descartes ha determinato la svolta soggettivistica dell’interpretazione dell’anima come sostanza. Ora quell’impostazione domina tutte le dottrine moderne.
Sviluppi del concetto cartesiano di anima
Anche Spinoza e Leibniz traducono il concetto cartesiano dell’anima nei termini del loro concetto di realtà. Per Spinoza, l’anima come “l’idea di un corpo singolo esistente in atto” è una manifestazione necessaria della sostanza divina, quindi è eterna. Per Leibniz l’anima è una sostanza spirituale, una monade che, come uno specchio, rappresenta in sé tutto il mondo ma è in se stessa semplice, cioè senza parti e indecomponibile. A partire da Descartes, il concetto di coscienza, cioè di totalità o mondo dell’esperienza interna, comincia dunque gradualmente a sostituire il concetto tradizionale di anima. In ambito empirista Locke, che riteneva “inconoscibile” la sostanza spirituale (come d’altronde quella materiale), ha ritenuto certa, in modo privilegiato, la conoscenza che l’uomo ha della propria esistenza, attribuendola a una “conoscenza intuitiva” che non è se non la coscienza dei propri atti spirituali. Locke ha ammesso due vie d’accesso parallele e indipendenti a due realtà presupposte indipendenti e parallele, cioè i corpi e l’anima. Hume, invece, non ha presupposto la distinzione di queste due realtà, né, per conseguenza, ha ammesso la distinzione tra le due vie d’accesso rispettive. La realtà sostanziale, sia quella delle cose materiali, sia quella dell’anima o dell’io, è una costruzione fittizia, che prende lo spunto dalle relazioni di somiglianza e di causalità delle percezioni tra di loro.
La critica kantiana e la negazione della sostanzialità dell’anima
La contrapposizione tra le due nozioni di anima e di coscienza raggiunge il suo punto culminante nella critica di Kant alla psicologia razionale cioè alla nozione di anima come sostanzialità, semplicità, unità e possibilità di rapporti col corpo. La critica kantiana consiste nel dire che l’intera psicologia razionale si fonda su di un paralogismo, cioè su un errore formale di ragionamento, o su un equivoco: nel senso che assume come oggetto di conoscenza, a cui sia applicabile la categoria di sostanza, quell’“Io penso” che è semplice “coscienza” e che è la condizione prima dell’uso stesso delle categorie. Quest’inversione del rapporto tra anima e coscienza per cui la coscienza, da via d’accesso alla realtà anima, si trasforma in questa stessa realtà, è ugualmente evidente nelle due grandi correnti della filosofia ottocentesca, l’Idealismo e il Positivismo. Hegel, per esempio, considera l’anima come il primo grado dello sviluppo dello spirito, che è la coscienza nel suo grado più alto, cioè auto-coscienza; e la configura come “spirito soggettivo”, cioè come lo spirito nell’aspetto della sua individualità. Dall’altro lato e con altri intenti, il Positivismo effettuava la stessa riduzione dell’anima alla coscienza, riprendendo e continuando la dottrina dell’Empirismo classico e specialmente di Hume. L’intento, qui, era quello di preparare e di fondare una “scienza” dei fatti psichici che avesse lo stesso rigore delle scienze della natura. In questa direzione già il termine anima appare improprio e viene spesso sostituito dal termine spirito; in questo senso Stuart Mill, dice, per esempio, che lo spirito (mind) è la “serie delle nostre sensazioni” con in più “un’infinita possibilità di sentire” o, più semplicemente, “ciò che sente”. Oggetto della psicologia diventano i “fenomeni psichici” o “gli stati di coscienza”, che vengono spiegati mediante il vario associarsi dei loro elementi più semplici. Tale “psicologia senza anima” presiedette agli inizi della psicologia scientifica e fu l’insegna polemica per l’eliminazione, dal campo di essa, della nozione tradizionale dell’anima come sostanza.
Teologia
Fin all’inizio di questo secolo, cattolici e protestanti ritenevano, quasi all’unanimità, che la presenza nell’uomo di un’anima spirituale e immortale costituisse un dato irrinunciabile della fede cristiana. Successivamente, la scoperta del modo diverso di concepire l’uomo nella cultura ebraica e il rigetto del dualismo platonico e di quello cartesiano nelle antropologie odierne hanno indotto prima i protestanti poi i cattolici a riesaminare il concetto di anima e a domandarsi se non lo si possa o addirittura non lo si debba abbandonare perché estraneo e contrario alla concezione biblica e improponibile all’uomo d’oggi. La concezione dell’uomo presente nella Bibbia non è dualistica bensì sintetica e descrittiva: l’uomo è visto come unità vivente. Il termine ebraico nefes, impropriamente tradotto con anima, indica l’intero uomo in quanto dotato di respiro vitale e quindi vivente e animato dallo spirito di Dio. Il Nuovo Testamento si attiene per lo più all’uso linguistico dell’Antico Testamento, intendendo l’anima (psyche) come vita e forza vitale senza contrapporla al corpo. La distinzione tra anima e corpo penetrò nel pensiero cristiano attraverso i Padri della Chiesa ma subì delle radicali correzioni: l’anima non è divina per natura e non preesiste al corpo ma è creata, insieme col corpo, da Dio. Una vigorosa riaffermazione dell’unità dell’uomo si ebbe con Tommaso d’Aquino. Aderendo all’antropologia aristotelica intese l’anima come forma corporis unita sostanzialmente al corpo, trascendente la materia ma essenzialmente correlata a essa. Questa prospettiva fortemente unitaria si rifletté nel Concilio di Vienne (1311) e nel Lateranense V (1513). Il Concilio Vaticano II (1962-65) fece un uso discreto e riservato del termine anima, preferendogli quello di “persona” più idoneo a esprimere l’unità dell’uomo e a rivalutarne il corpo. Oggi la teologia si orienta a evitare sia la sopravvalutazione sia la svalutazione della nozione di anima. Il cristianesimo non s’identifica con alcuna antropologia particolare pur dovendosene servire, ma neppure le considera tutte ugualmente capaci di esprimere la realtà dell’uomo e la sua vocazione alla salvezza. Il binomio “anima-corpo” non è di per sé insostituibile. Per intanto, se viene rettamente inteso come dualità senza dualismi, e l’anima anziché essere immaginata come una “cosa” accanto al corpo viene concepita come “principio interno che condiziona l’unità e la totalità dell’uomo” (Emerich Coreth), c’è da pensare che esso non sia poi così inaccettabile e che costituisca per ora la rappresentazione più idonea a tradurre la ricca e complessa realtà dell’uomo e la sua capacità di aprirsi alla sorprendente vocazione a cui Dio lo chiama.
Antropologia culturale
Concetto di origine orientale, presente anche nel pitagorismo antico, nato dall’esigenza di spiegare l’unità del cosmo, considerato come un “grande animale”, dotato quindi di un’anima e di vita propria; in questi termini esso viene presentato da Platone nel Timeo. Nello Stoicismo, la bellezza e perfezione del mondo e il finalismo che lo governa ne fanno un essere vivente animato dotato di ragione da cui trae origine ogni vita e movimento. Plotino accetta l’idea che il cosmo sia un tutto vivente, in cui i singoli esseri trovano la loro giustificazione solo come parti di esso: l’anima, seconda emanazione dell’Uno procedente dall’Intelletto, guarda appunto da un lato a questo per attingervi i modelli del suo operare, dall’altro alle cose inferiori a cui è chiamata a dare insieme vita e ordine.
Nella Scolastica, l’anima viene talora identificata con la terza persona della Trinità ; ciò darà luogo, specie nel Rinascimento, al tentativo di tradurre su un piano cosmico l’azione dello Spirito Santo , con teorizzazioni spesso al limite dell’ortodossia. Tra ‘400 e ‘500 nuova vitalità al concetto viene assicurata dall’opera di Ficino e in particolare dal suo commento alle Enneadi plotiniane, spesso intriso di forti interessi magici. L’azione magica diviene allora riprova dell’eccellenza ontologica dell’uomo ed è il risultato di un’ascesi contemplativa che torni a volgersi al mondo dell’azione, a un operare pratico riservato a pochi eletti. In genere, l’anima viene concepita in questo periodo, attraversato da forti interessi per la magia e l’astrologia (basti pensare alle personalità di Agrippa di Nettesheim, di Paracelso e di Bruno), come fondamento della simpatia universale, di quell’occulto legame che unisce tra loro tutte le cose non meno dei vari piani dell’essere e si pone quindi alla radice dell’operazione magica. Del concetto di anima si servirà ancora Schelling (Sull’anima del mondo, 1798) per dimostrare la continuità di mondo organico e inorganico; essa è per lui “ciò che unisce tutta la natura in un organismo universale” e vivente.