Giovanni Paolo II, Salvifici doloris
(1984)
Alla ricerca della risposta all’interrogativo sul senso della sofferenza
9. All’interno di ogni singola sofferenza provata dall’uomo e, parimenti, alla base dell’intero mondo delle sofferenze appare inevitabilmente l’interrogativo: perché? È un interrogativo circa la causa, la ragione, e insieme un interrogativo circa lo scopo (perché?) e, in definitiva, circa il senso. Esso non solo accompagna l’umana sofferenza, ma sembra addirittura determinarne il contenuto umano, ciò per cui la sofferenza è propriamente sofferenza umana.
Ovviamente il dolore, specie quello fisico, è ampiamente diffuso nel mondo degli animali. Però solo l’uomo, soffrendo, sa di soffrire e se ne chiede il perché; e soffre in modo umanamente ancor più profondo, se non trova soddisfacente risposta. Questa è una domanda difficile, così come lo è un’altra, molto affine, cioè quella intorno al male. Perché il male? Perché il male nel mondo? Quando poniamo l’interrogativo in questo modo, facciamo sempre, almeno in una certa misura, una domanda anche sulla sofferenza.
L’uno e l’altro interrogativo sono difficili, quando l’uomo li pone all’uomo, gli uomini agli uomini, come anche quando l’uomo li pone a Dio. L’uomo, infatti, non pone questo interrogativo al mondo, benché molte volte la sofferenza gli provenga da esso, ma lo pone a Dio come al Creatore e al Signore del mondo. Ed è ben noto come sul terreno di questo interrogativo si arrivi non solo a molteplici frustrazioni e conflitti nei rapporti dell’uomo con Dio, ma capiti anche che si giunga alla negazione stessa di Dio. Se, infatti, l’esistenza del mondo apre quasi lo sguardo dell’anima umana all’esistenza di Dio, alla sua sapienza, potenza e magnificenza, allora il male e la sofferenza sembrano offuscare quest’immagine, a volte in modo radicale, tanto più nella quotidiana drammaticità di tante sofferenze senza colpa e di tante colpe senza adeguata pena. Perciò, questa circostanza - forse ancor più di qualunque altra - indica quanto sia importante l’interrogativo sul senso della sofferenza, e con quale acutezza occorra trattare sia l’interrogativo stesso, sia ogni possibile risposta da darvi.
10. L’uomo può rivolgere un tale interrogativo a Dio con tutta la commozione del suo cuore e con la mente piena di stupore e di inquietudine; e Dio aspetta la domanda e l’ascolta, come vediamo nella Rivelazione dell’Antico Testamento. Nel Libro di Giobbe l’interrogativo ha trovato la sua espressione più viva.
È nota la storia di questo uomo giusto, il quale senza nessuna colpa da parte sua viene provato da innumerevoli sofferenze. Egli perde i beni, i figli e le figlie, e infine viene egli stesso colpito da una grave malattia. In quest’orribile situazione si presentano nella sua casa i tre vecchi conoscenti, i quali - ognuno con diverse parole - cercano di convincerlo che, poiché è stato colpito da una così molteplice e terribile sofferenza, egli deve aver commesso una qualche colpa grave. La sofferenza - essi dicono - colpisce infatti sempre l’uomo come pena per un reato; viene mandata da Dio assolutamente giusto e trova la propria motivazione nell’ordine della giustizia. Si direbbe che i vecchi amici di Giobbe vogliano non solo convincerlo della giustezza morale del male, ma in un certo senso tentino di difendere davanti a se stessi il senso morale della sofferenza. Questa, ai loro occhi, può avere esclusivamente un senso come pena per il peccato, esclusivamente dunque sul terreno della giustizia di Dio, che ripaga col bene il bene e col male il male.
Il punto di riferimento è in questo caso la dottrina espressa in altri scritti dell’Antico Testamento, che ci mostrano la sofferenza come pena inflitta da Dio per i peccati degli uomini. Il Dio della Rivelazione è Legislatore e Giudice in una tale misura, quale nessuna autorità temporale può avere. Il Dio della Rivelazione, infatti, è prima di tutto il Creatore, dal quale, insieme con l’esistenza, proviene il bene essenziale della creazione. Pertanto, anche la consapevole e libera violazione di questo bene da parte dell’uomo è non solo una trasgressione della legge, ma al tempo stesso un’offesa al Creatore, che è il primo Legislatore. Tale trasgressione ha carattere di peccato, secondo il significato esatto, cioè biblico e teologico, di questa parola. Al male morale del peccato corrisponde la punizione, che garantisce l’ordine morale nello stesso senso trascendente, nel quale quest’ordine è stabilito dalla volontà del Creatore e supremo Legislatore. Di qui deriva anche una delle fondamentali verità della fede religiosa, basata del pari sulla Rivelazione: che cioè Dio è giudice giusto, il quale premia il bene e punisce il male: "Tu, Signore, sei giusto in tutto ciò che hai fatto; tutte le tue opere sono vere, rette le tue vie e giusti tutti i tuoi giudizi. Giusto è stato il tuo giudizio per quanto hai fatto ricadere su di noi [...]. Con verità e giustizia tu ci hai inflitto tutto questo a causa dei nostri peccati".
Nell’opinione espressa dagli amici di Giobbe, si manifesta una convinzione che si trova anche nella coscienza morale dell’umanità: l’ordine morale oggettivo richiede una pena per la trasgressione, per il peccato e per il reato. La sofferenza appare, da questo punto di vita, come un "male giustificato". La convinzione di coloro che spiegano la sofferenza come punizione del peccato trova il suo sostegno nell’ordine della giustizia, e ciò corrisponde all’opinione espressa da un amico di Giobbe: "Per quanto io ho visto, chi coltiva iniquità, chi semina affanni, li raccoglie".
11. Giobbe, tuttavia, contesta la verità del principio, che identifica la sofferenza con la punizione del peccato. E lo fa in base alla propria opinione. Infatti, egli è consapevole di non aver meritato una tale punizione, anzi espone il bene che ha fatto nella sua vita. Alla fine Dio stesso rimprovera gli amici di Giobbe per le loro accuse e riconosce che Giobbe non è colpevole. La sua è la sofferenza di un innocente; deve essere accettata come un mistero, che l’uomo non è in grado di penetrare fino in fondo con la sua intelligenza.
Il Libro di Giobbe non intacca le basi dell’ordine morale trascendente, fondato sulla giustizia, quali son proposte dalla Rivelazione, nell’Antica e nella Nuova Alleanza. Al tempo stesso, però, il Libro dimostra con tutta fermezza che i principi di quest’ordine non si possono applicare in modo esclusivo e superficiale. Se è vero che la sofferenza ha un senso come punizione, quando è legata alla colpa, non è vero, invece, che ogni sofferenza sia conseguenza della colpa e abbia carattere di punizione. La figura del giusto Giobbe ne è una prova speciale nell’Antico Testamento. La Rivelazione, parola di Dio stesso, pone con tutta franchezza il problema della sofferenza dell’uomo innocente: la sofferenza senza colpa. Giobbe non è stato punito, non vi erano le basi per infliggergli una pena, anche se è stato sottoposto a una durissima prova. Dall’introduzione del Libro risulta che Dio permise questa prova per provocazione di Satana. Questi, infatti, aveva contestato davanti al Signore la giustizia di Giobbe: "Forse che Giobbe teme Dio per nulla? [...] Tu hai benedetto il lavoro delle sue mani, e il suo bestiame abbonda sulla terra. Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha, e vedrai come ti benedirà in faccia". E se il Signore acconsente a provare Giobbe con la sofferenza, lo fa per dimostrarne la giustizia. La sofferenza ha carattere di prova.
Libro di Giobbe non è l’ultima parola della Rivelazione su questo tema. In un certo modo esso è un annuncio della passione di Cristo. Ma, già da solo, è un argomento sufficiente, perché la risposta all’interrogativo sul senso della sofferenza non sia collegata senza riserve con l’ordine morale, basato sulla sola giustizia. Se una tale risposta ha una sua fondamentale e trascendente ragione e validità, al tempo stesso essa si dimostra non solo insoddisfacente in casi analoghi alla sofferenza del giusto Giobbe, ma anzi sembra addirittura appiattire e impoverire il concetto di giustizia, che incontriamo nella Rivelazione.
12. Il Libro di Giobbe pone in modo acuto il "perché" della sofferenza, mostra pure che essa colpisce l’innocente, ma non dà ancora la soluzione al problema.
Già nell’Antico Testamento notiamo un orientamento che tende a superare il concetto, secondo cui la sofferenza ha senso unicamente come punizione del peccato, in quanto si sottolinea nello stesso tempo il valore educativo della pena sofferenza. Così dunque, nelle sofferenze inflitte da Dio al popolo eletto è racchiuso un invito della sua misericordia, la quale corregge per condurre alla conversione: "Questi castighi non vengono per la distruzione, ma per la correzione del nostro popolo".
Così si afferma la dimensione personale della pena. Secondo tale dimensione, la pena ha senso non soltanto perché serve a ripagare lo stesso male oggettivo della trasgressione con un altro male, ma prima di tutto perché essa crea la possibilità di ricostruire il bene nello stesso soggetto sofferente.
Questo è un aspetto estremamente importante della sofferenza. Esso è profondamente radicato nell’intera Rivelazione dell’Antica e, soprattutto, della Nuova Alleanza. La sofferenza deve servire alla conversione, cioè alla ricostruzione del bene nel soggetto, che può riconoscere la misericordia divina in questa chiamata alla penitenza. La penitenza ha come scopo di superare il male, che sotto diverse forme è latente nell’uomo, e di consolidare il bene sia in lui stesso, sia nei rapporti con gli altri e, soprattutto, con Dio.
13. Ma per poter percepire la vera risposta al "perché" della sofferenza, dobbiamo volgere il nostro sguardo verso la rivelazione dell’amore divino, fonte ultima del senso di tutto ciò che esiste. L’amore è anche la fonte più ricca del senso della sofferenza, che rimane sempre un mistero: siamo consapevoli dell’insufficienza e inadeguatezza delle nostre spiegazioni. Cristo ci fa entrare nel mistero e ci fa scoprire il "perché" della sofferenza, in quanto siamo capaci di comprendere la sublimità dell’amore divino.
Per ritrovare il senso profondo della sofferenza, seguendo la Parola rivelata di Dio, bisogna aprirsi largamente verso il soggetto umano nella sua molteplice potenzialità. Bisogna, soprattutto, accogliere la luce della Rivelazione non soltanto in quanto essa esprime l’ordine trascendente della giustizia, ma in quanto illumina questo ordine con l’amore, quale sorgente definitiva di tutto ciò che esiste. L’Amore è anche la sorgente più piena della risposta all’interrogativo sul senso della sofferenza. Questa risposta è stata data da Dio all’uomo nella Croce di Gesù Cristo. […]
La sofferenza certamente appartiene al mistero dell’uomo. Forse essa non è avvolta quanto lui da questo mistero, che è particolarmente impenetrabile. Il Concilio Vaticano II ha espresso questa verità che "in realtà, solamente nel mistero del Verbo Incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. Infatti..., Cristo che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione". Se queste parole si riferiscono a tutto ciò che riguarda il mistero dell’uomo, allora certamente si riferiscono in modo particolarissimo all’umana sofferenza. Proprio in questo punto lo "svelare l’uomo all’uomo e fargli nota la sua altissima vocazione" è particolarmente indispensabile. Succede anche - come prova l’esperienza - che ciò sia particolarmente drammatico. Quando però si compie fino in fondo e diventa luce della vita umana, ciò è anche particolarmente beato. "Per Cristo e in Cristo si illumina l’enigma del dolore e della morte".