Dizionario del Cristianesimo

A B C D E F G I L M N O P Q R S T V

Storie delle religioni

La concezione della divinità nelle diverse culture religiose

Nell’ambito della storia delle religioni, sono stati acriticamente intesi con tale categoria vari esseri extraumani o sovrumani concepiti dalle diverse culture religiose, mentre l’uso scientifico del termine copre due sole concezioni: la divinità dei politeismi e il Dio unico dei monoteismi. Si tratta di due concezioni diverse, e l’uso comune del nome dio è giustificato dalla loro connessione storica: tutte le formazioni monoteistiche note si sono realizzate contrapponendo un dio unico alla molteplicità degli dèi politeistici, e dunque assumendo per il proprio dio le loro caratteristiche strutturali. Nel mazdeismo la realizzazione del dio unico Ahura Mazdâh avviene contro il culto dei daeva (etimologicamente affine al latino dei), e svolgendo in modo originale la contrapposizione attestata nell’India vedica tra asura (in iranico ahura) e deva (in iranico daeva). Nel giudaismo la concezione del Dio unico Yhwh (Yahwèh) procede acquisendo l’idea di divinità (settoriale) dal politeismo cananeo; collegandola poi a un settore esclusivo e onnicomprensivo (Israele, ossia il popolo ebraico), che supera la settorialità delle divinità cananee; ordinando il culto di Yhwh (monolatria) e proibendo la venerazione di altri dèi; e infine affermando, a partire dal Deuteroisaia, la sola esistenza di Yhwh e l’inesistenza di altri dèi. Sia il cristianesimo sia l’islam procedono dall’idea ebraica del Dio unico, e la loro realizzazione storica ha avuto modo di rinverdire la polemica antipoliteistica in relazione alle rispettive condizioni ambientali: il cristianesimo contro i politeismi del mondo classico (paganesimo) e l’islam contro la religione tradizionale degli arabi, in parte politeistica. La posizione scientifica qui delineata è il frutto di un progresso degli studi storico-religiosi dovuto in massima parte alla scuola romana di Raffaele Pettazzoni (1883-1959) e Angelo Brelich (1913-77). Nella fase “prescientifica” si considerava invece dio ogni essere extraumano o sovrumano di altre religioni, fatto coincidere con il divino sulla base di un condizionamento eurocentrico. La riflessione teologica non confessionale e razionalista del Settecento pose la concezione di Dio come prima forma di religione (teismo). Nel XIX secolo, quando si conobbero meglio le culture non europee, specie quelle primitive, e ci si rese conto dell’irriducibilità di alcune loro concezioni alla nostra concezione di Dio, prevalse l’impostazione ispirata all’evoluzionismo, che propose lo sviluppo della religione da un prepoliteismo senza dèi al politeismo e al monoteismo. Il prepoliteismo era variamente congetturato: come animismo (Edward Burnett Tylor, 1832-1917, antropologo), posposto al preanimismo del Mana (Robert Ranulph Marett, 1866-1943, antropologo), o anteposto al polidemonismo. Le tesi evoluzioniste, di nessuna attendibilità storica, fecero tuttavia progredire nella differenziazione scientifica del concetto di Dio. Il rischio di una confusione, però, si ripresentò con la scoperta di Andrew Lang (1844-1912, etnologo) dell’Essere supremo (Supreme Being), noto proprio alle popolazioni che si ritenevano più primitive (gli australiani); scoperta, che fu ampliata negli anni Venti del Novecento da padre Wilhelm Schmidt (1868-1954, etnologo) con la tesi fortemente confessionale, anche se supportata da un immenso materiale scientifico, di un monoteismo primordiale (Urmonotheismus) quale prima religione accentrata sulla conoscenza e sul culto di un essere supremo. Tale tesi, che riportava alle posizioni storico-religiose eurocentriche, fu sottoposta a una critica serrata da Raffaele Pettazzoni, che riuscì a distinguere come irriducibili all’idea storica politeistica e monoteistica di Dio varie figure dell’Urmonotheismus, e precisamente: l’essere supremo, il Creatore ozioso, il Signore degli animali e la Terra madre, presenti nei popoli cacciatori e agricoltori.

Il politeismo

Il dio delle religioni politeistiche si distingue da ogni altro essere sovrumano per:

a) la personificazione, ottenuta con l’antropomorfizzazione e l’attribuzione di un nome personale;

b) la felice condizione esistenziale, che ne determina la sovrumanità rispetto alla condizione mortale umana;

c) l’efficienza in uno specifico campo d’azione;

d) l’immanenza al proprio campo d’azione;

e) un rapporto istituzionale con le altre divinità del pantheon;

f) la presenza di un sacerdozio e, nei politeismi tipici, di un tempio a lui dedicato.

In tale contesto culturale ogni dio e il mondo sono parimenti eterni (o immortali); mentre nei politeismi in cui si concepisce una fine del mondo, anche gli dèi sono perituri: si pensi al motivo del crepuscolo degli dèi (Götterdämmerung) abbinato alla catastrofe finale, il Ragnarök, nella tradizione norrena. La funzione di questa rigorosa immanenza degli dèi al mondo è quella di fornire un assetto logico (umano) alla realtà di per sé illogica (extraumana), donde si può dire che l’uomo, attraverso gli dèi, dialoga con il mondo e il dialogo si realizza sotto forma di culto permanente che gli uomini tributano agli dèi.

Il monoteismo

A partire dalla connessione storica dei monoteismi con i politeismi, appare chiaro come la fenomenologia del Dio unico monoteistico vada condotta con esplicito riferimento a quella del dio politeistico. Il Dio monoteistico è anch’esso “personale”, ma nel senso di un’assoluta trascendenza. Pur presentando un più o meno accentuato antropomorfismo, non ha caratterizzazione né nome proprio: il nome con cui è designato è categoriale, e deriva dalla (o da una) categoria divina della cultura in cui si sono realizzati i monoteismi storici. Così l’iranico Ahura Mazdâh, come s’è già accennato, trae il nome dalla categoria degli ahura (cfr. il sanscrito asura), mentre Mazdâh è un attributo che si riferisce alla sua sapienza. Nel giudaismo il nome Yhwh è secondario e soppianta l’originario El o Elohim nei testi jahvisti (detti così appunto dalla nuova denominazione di Dio, vocalizzata Jahvé); ora El (ed Elohim, il plurale usato però come un singolare) è il designativo degli dèi in tutte le lingue semitiche, e forse proprio per designare l’unico El si è usato il plurale Elhoim, quasi per dire che teneva il posto di una pluralità divina. Quanto a Yhwh, la sua etimologia è sconosciuta, ma non lo è la sua funzione, che è quella di farne un’entità propria d’Israele, distinta dagli dèi degli altri popoli: in tal caso si tratta di una vera e propria denominazione, ma per distinguere il Dio d’Israele dagli dèi degli altri popoli e non per distinguere un dio in seno a un pantheon. Nella tradizione cristiana non è un essere di nome Dio quanto è il Dio; ovvero è stato adottato il termine con cui il politeismo romano designava tutti gli dèi. Allâh degli islamici è ugualmente un nome di categoria, come appare dal primo articolo del credo musulmano. Passando alla condizione esistenziale del Dio monoteistico, si deve dire che è “felice” come quella degli dèi politeistici, ma lo è in modo assoluto: è una felicità sovrannaturale oltreché sovrumana, in quanto il Dio unico è eterno e trascende il mondo, che invece nasce e può morire. La sua efficienza non ha un campo d’azione limitato e si trasforma in onnipotenza. Tutt’al più si può vedere, nel mazdeismo come nello gnosticismo o parzialmente nella formulazione ebraica di Dio e nella teologia cristiana in generale, qualcosa che sta al posto del campo d’azione: la limitazione dell’azione divina a ciò che con un termine convenzionale si può chiamare il Bene; donde il Male dev’essere attribuito ad altri (al peccato originale, al diavolo o addirittura a un Dio-del-Male come nel tardo mazdeismo e nelle formazioni gnostiche), secondo un rapporto che, in sede di storia delle religioni, è definito “di dualismo”. Per quanto riguarda il culto, il Dio unico come gli dèi politeistici ha sacerdoti e templi, anche se si tratta di un culto teso ad affermare l’unicità di Dio in tutte le sue realizzazioni. Valga da esempio il caso ebraico: come nell’ambiente politeistico cananeo ogni dio ha il suo tempio, così quando anche Yhwh avrà il proprio tempio (con Salomone), esso dovrà essere unico (al modo in cui unico è Yhwh). Si respinge l’idea che gli ebrei lontani da Gerusalemme possano innalzare dappertutto templi a Dio, e per venerarlo lontano da Gerusalemme (o dopo la distruzione del Tempio di Salomone) si usa raccogliersi in una casa di riunione, detta con termine greco sinagoga (ovvero riunione, assemblea; donde anche il tempio cristiano è in realtà una chiesa , dal greco ekklesìa, assemblea). Il confronto tra le divinità politeistiche e il Dio monoteistico è dunque riducibile al tema dell’unicità e al senso di una rivelazione che i monoteismi, pur nella diversità delle loro interpretazioni, fanno valere come manifestazione unica e inalienabile di Dio nella storia, dialogo del Dio con l’uomo, spesso mediato dalla figura di un profeta.

La concezione biblica

La concezione biblica di Dio, sia ebraica sia cristiana, deriva da una lunga esperienza storica di salvezza; secondo la convinzione cristiana, essa culmina nell’evento di di Nazaret.

Dio nel Primo Testamento

In tutte le più antiche professioni di fede ebraiche (Lv 26, 13; Dt 26, 5-10; 6, 21-25; Gs 24, 2-15) Dio appare come Yhwh che ha fatto uscire dall’Egitto. L’esperienza degli avvenimenti storici inducono l’israelita a riconoscere in Dio il “Salvatore” (Mâshîah), il “Redentore-Liberatore-Vendicatore” (Gô’el); il Dio che “espia” (Kipper); il Dio dell’alleanza (berît) datore della Legge (Torah) che dischiude all’uomo la via della vita. Successivamente Israele scopre in Dio il Signore delle origini, il Creatore (2Mac 7, 23-29) e il Dio del futuro da cui attende l’ultimo e definitivo compimento della salvezza. Si rivela agendo e nel suo agire si manifesta radicalmente diverso dall’uomo (trascendente) e nel contempo vicinissimo a lui (immanente). La Bibbia parla anzitutto a Dio e con Dio e, solo dipendentemente da ciò, di Dio. Infine, Dio appare come il “vivente” per eccellenza.

Dio nel Secondo Testamento

Gesù non propone un altro Dio bensì lo stesso Dio del Primo Testamento e del giudaismo, v’introduce, però, tratti nuovi e sorprendenti. Secondo l’ottica cristiana, Gesù ha rivelato il vero volto di Dio in modo definitivo e insuperabile non solo con le parole, ma con tutta la sua persona e la sua storia: in lui si ha la traduzione in forma umana di Dio. La predicazione di Gesù si condensa nell’annuncio di un evento e di un appellativo di Dio strettamente collegati: il regno di Dio e la sua qualità di Padre. L’esito mortale della vita di Gesù reca un nuovo tocco alla rivelazione di Dio. Nelle circostanze dolorose della croce matura la scelta libera di Gesù rivelatrice di Dio: il suo donarsi a Dio per gli uomini. La risurrezione di Gesù, rappresenta il vertice rivelativo del Dio del Secondo Testamento in quanto lo manifesta come il Dio fedele che apparentemente abbandona, ma che in realtà introduce nella vita. Il Dio Creatore risulta essere anche il Dio risuscitatore. La storia della salvezza, culminante nella risurrezione e nell’effusione dello Spirito Santo (Pentecoste ), si svolge come rapporto dialogico tra Dio Padre, Gesù e lo Spirito Santo e mostra che gli uomini sono chiamati a entrare nella vita e nella conoscenza del Dio tripersonale (teologia ; Trinità ).

Filosofia

Non c’è una sola nozione di Dio, ma per lo meno tante nozioni diverse quante sono state le fondamentali tendenze filosofiche che storicamente si sono affermate.

La nozione di Dio nella filosofia greca

È ancora un problema aperto quale possa essere stato il rapporto fra il mito e le prime cosmogonie e il sorgere della riflessione filosofica, ma non vi è dubbio che fra l’acqua di Talete, l’infinito di Anassimandro, l’aria di Anassimene, il fuoco di Eraclito, intesi come princìpi di tutte le cose, e l’origine mitica di ogni aspetto della realtà dal Caos, c’è una distanza incolmabile.

Il Dio di Senofane

Tale diversità d’altronde non avrebbe tardato a trasformarsi in una consapevole ed espressa opposizione: lo testimonia Senofane, che rifiuta qualsiasi rappresentazione della divinità non adeguata a un concetto di assoluta perfezione, al quale soltanto una rigorosa riflessione razionale può pervenire. La definizione filosofica di Dio coincide in questa formulazione con il rifiuto di qualsiasi rappresentazione della divinità, con la critica di qualsiasi superstizione e con l’affermazione di un essere perfetto e assoluto, che esprime e realizza in sé oggettivamente le più alte esigenze dell’intelletto e della ragione.

Il Dio di Platone e Aristotele

Con Platone si attua un altro momento di quel processo di raffinamento del concetto di divinità: Dio viene identificato con l’idea del Bene, quell’idea che sovrasta come principio unificatore e ordinatore ogni aspetto della realtà sia morale sia metafisica. Dio, per Platone, è l’ordinatore del mondo, non ne è però il creatore. Nel Timeo l’artefice divino (Demiurgo) dà ordine alla materia, prendendo a modello le Idee eterne, e da quest’azione ordinatrice nasce il mondo sensibile, dove tutto diviene e tutto è generato. Da ciò deriva che la materia riceve e subisce l’ordine, ma non che l’ordine da essa ricevuto sia esso stesso il divino, il quale nella sua assoluta perfezione non può avere alcun contatto o entrare in rapporto con la materia. L’ordine di questo mondo non è quindi Dio, ma una copia della perfezione divina. Interpretato in questo modo, il Dio di Platone non si differenzia molto da quello di Aristotele, per il quale Dio, motore e causa ordinatrice del mondo, ne costituisce nel contempo l’unità e l’intelligibilità. Esso è eterno, immobile, e nella sua assoluta perfezione costituisce il fine al quale tutti gli esseri tendono. Dio non è esteso e la sua realtà è una natura puramente intelligibile, definita da Aristotele come forma senza materia, come puro atto di pensiero o pensiero che pensa se stesso.

Il panteismo degli stoici e dei neoplatonici

Se il dualismo fra idea e ricettacolo materiale, in Platone, e l’opposizione di forma e materia, in Aristotele, sono la ragione per la quale Dio conserva nei confronti del mondo una certa trascendenza, il monismo presente nello stoicismo costituisce, nella filosofia greca, l’esempio tipico di un radicale panteismo. Dio è la totalità del mondo e nello stesso tempo ne costituisce l’ordinamento e l’unità. Non c’è un ordine del mondo separato dal mondo, ma il mondo è un tutto organico, che va concepito come un essere vivente, l’animale cosmico. Panteistica, ma di un panteismo per molti aspetti diverso da quello degli stoici, è anche la nozione che di Dio ebbero Plotino e il neoplatonismo nell’ultima grande manifestazione della filosofia greca. Dio è unità, semplicità e autosufficienza assolute ma prima di tutto questo è pienezza, infinità e sovrabbondanza di essere da cui tutto procede per emanazione attraverso ipostasi, che vanno dall’intelletto all’anima e dall’anima all’infinita molteplicità delle cose sensibili che compongono il nostro mondo. Ma questa processione da Dio non produce nella sua natura nessun cambiamento, nessun depotenziamento. Il suo essere, pur nella continua e infinita produttività che lo distingue, rimane sempre lo stesso: uno, infinito, eterno, immutabile, tutto sempre realizzato nella sua pienezza. L’assoluta trascendenza di Dio nei confronti del mondo non contraddice l’assoluta immanenza del mondo in Dio, come parte di un tutto che, essendo in se stesso infinito, non può aver nulla che, pur staccandosi o aggiungendosi a lui, possa in qualche modo mutarne l’essenza.

Il Dio della filosofia greca e il Dio cristiano

Le nozioni di Dio definite dalla filosofia greca nel suo millenario svolgimento, per quanto diverse, presentano quindi tutte alcuni caratteri essenziali che le distinguono da quella che sarà la nozione cristiana della divinità. In primo luogo, per i filosofi greci la divinità è soprattutto ed essenzialmente razionalità. Questo vale per Platone e per Aristotele, come per gli stoici, Plotino e i neoplatonici. Il misticismo dei neoplatonici, anzi, costituisce l’estremo limite dell’attività della ragione che si trasforma in intuizione, in visione dell’assoluto (estasi). L’irrazionalità è ciò che è opposto a Dio: è la materia, è l’informe, il male o più semplicemente, nella particolare visione dei neoplatonici, l’ombra scura, ma illusoria, perché inesistente, del nulla. A parte gli stoici, che con il loro monismo e panteismo vitalistico hanno proposto una concezione assimilabile impropriamente al materialismo, sia il Dio di Platone e di Aristotele sia quello dei neoplatonici è ciò che può esserci di più distante dalla materia, ne è anzi esattamente l’opposto. Sembrano anzi esserci gli elementi sufficienti e necessari perché si possa parlare di spirito, e spesso lo si è interpretato in questo modo; tuttavia, manca ancora un attributo essenziale: l’assoluta libertà di Dio nei confronti del mondo, la nozione cioè che Dio possa trarre dal nulla l’universo, così come avrebbe potuto anche non crearlo. La nozione di Dio come spirito la si ottiene solo se a tutte le perfezioni intellettuali e morali si aggiungono la volontà e l’onnipotenza. Spirito è solo il Dio-persona del cristianesimo.

La nozione cristiana di Dio

Volontà, potenza e persona sono nozioni che, attribuite a Dio, la filosofia greca aveva cercato di espungere dalla natura divina, ravvisando in esse un residuo di antropomorfismo, caratteristico di un modo volgare di concepire la divinità. L’assoluta trascendenza attribuita dagli apologisti e dai Padri della Chiesa all’essere divino permise di eliminare in maniera radicale l’antropomorfismo che poteva essere presente nel concetto di un Dio concepito come persona, mentre la nozione di onnipotenza, cioè di una potenza che crea dal nulla qualsiasi cosa esistente, compresa la materia, veniva resa concettualmente incommensurabile con qualsiasi altra nozione di potenza limitata. Assoluta trascendenza e creazione dal nulla sono quindi i due concetti fondamentali che distinguono il Dio cristiano dal Dio definito dalla filosofia greca. All’intellettualismo greco si contrappone così il volontarismo cristiano. Un volontarismo questo che, se portato alle estreme conseguenze, poteva portare, e talvolta effettivamente portò, a forme di deciso irrazionalismo e di radicale fideismo. Platonismo e neoplatonismo in un primo momento, e successivamente anche l’aristotelismo, fornirono al pensiero cristiano gli elementi essenziali per definire una nozione di Dio che integrasse e per molti aspetti snaturasse l’originaria concezione di un Dio onnipotente, signore assoluto e arbitrario non solo dell’ordine, ma anche dell’essere stesso dell’universo creato. Il piano dell’essere divino non è in contrapposizione con il piano dell’essere del mondo, ma fra i due piani si manifesta una certa corrispondenza garantita dall’impossibilità di concepire una ragione di Dio essenzialmente diversa da quella umana. Il concetto di “analogia”, elaborato da Tommaso d’Aquino, esprime in modo significativo questa corrispondenza, e costituisce il presupposto perché, nonostante la differenza sussistente fra l’essere e la ragione di Dio e l’essere e la ragione dell’uomo, sia possibile fornire delle dimostrazioni razionali dell’esistenza di Dio (vedi oltre, Le prove dell’esistenza di Dio).

La nozione di Dio nella filosofia moderna

A partire dal XIV secolo, come conseguenza della crisi della Scolastica, si svilupparono alcune tendenze che trovarono poi la loro formulazione sistematica e la loro piena giustificazione teorica nell’opera critica di Kant. La critica kantiana alla nozione di Dio come oggetto di una possibile conoscenza da parte della ragione umana è determinante per comprendere le varie evoluzioni che tale nozione ha avuto nella filosofia dell’Ottocento e dell’epoca contemporanea. Particolarmente significativa è quella che si è venuta definendo nell’Idealismo. Da un certo punto di vista l’Idealismo, in tutte le sue forme, da quelle originarie di Fichte, Schelling ed Hegel, a quelle successive, operanti fino ai nostri giorni, può essere considerato una restaurazione, dopo Kant, della metafisica. Ma si tratta di una restaurazione che tiene conto dei risultati della critica kantiana. Infatti, soprattutto con Hegel, ci troviamo di fronte a una laicizzazione della nozione cristiana di Dio inteso come spirito.   Nell’Idealismo, infatti, Dio è concepito come soggetto, attività, ma soprattutto come libertà e creatività; solo che questa soggettività attiva, libera e creativa non è più intesa come il manifestarsi di un essere trascendente, ma viene identificata con la soggettività, l’attività e la creatività proprie dell’uomo, mentre l’oggetto reale e concreto di tale attività non è più la natura, bensì la storia, che nel suo svolgimento esprime il realizzarsi sia dell’uomo, sia dei valori assoluti dei quali egli è portatore, cioè di Dio. Contro questa identificazione e contro le condizioni che la rendono possibile, si muove la critica di Feuerbach, che pone invece in luce il carattere irrimediabilmente antropomorfico di qualsiasi nozione di Dio, anche di quelle concepite e definite in base ai più puri e astratti principi della ragione. Corrispondenti, anche se non identificabili, a questa definizione antropologica della nozione di Dio, sono certe interpretazioni che della natura divina sono emerse nell’ambito del Positivismo e del Pragmatismo (Mill, James). L’acquisizione del carattere antropomorfico di qualsiasi concetto di Dio si possa formulare, non ha portato soltanto, nell’epoca contemporanea, a rinvigorire forme d’indifferenza religiosa e di ateismo, ma a promuovere anche nuove forme di esperienza religiosa, fondate sull’assoluta trascendenza dell’essere divino, inafferrabile da qualsiasi punto di vista l’uomo possa porsi. Dio, o meglio la trascendenza, non si manifesta positivamente, ma solo negativamente, come conseguenza della radicale insufficienza di ogni aspetto della realtà del mondo, sia fisico sia umano. Nei confronti di Dio tanto l’essere del mondo che l’essere dell’uomo sono nulla. La morte è la condizione suprema di ogni esistenza, ed è anche, per come viene vissuta dall’uomo, possibilità della trascendenza. Dio per l’uomo può essere solo questa esperienza, e a essa l’uomo deve abbandonarsi come all’unica possibilità che gli è offerta per superare l’insignificanza della propria esistenza (Barth, Jaspers). Il carattere della trascendenza divina non aveva forse mai raggiunto una formulazione così radicale e drammatica.

Le prove dell’esistenza di Dio

Nella tradizione del pensiero filosofico cristiano le prove dell’esistenza di Dio costituiscono il risultato della saldatura fra la nozione di Dio come volontà e potenza da un lato e come ragione e razionalità dall’altro, e hanno come conseguenza una consistente riduzione della sua trascendenza. La prova ontologica fu formulata da Anselmo d’Aosta nell’XI secolo e costituisce la tipica dimostrazione a priori dell’esistenza di Dio. Nella filosofia moderna fu ripresa e adattata da Descartes e da Leibniz. Alla prova ontologica di ascendenza platonica si aggiungono, ma anche si contrappongono, le cinque “vie” che san Tommaso ritenne percorribili per la mente umana nel suo sforzo di assicurarsi dell’esistenza di Dio:

1) la prova tratta dal movimento (o cosmologica): è necessario risalire a un motore immobile, che tutto muove, senza essere, a sua volta, mosso da nulla;

2) la prova tratta dalla causa: è necessario pervenire a una causa ultima, che è causa di tutto, senza essere causata da nulla;

3) la prova dal possibile e dal necessario (ex possibili et necessario o anche a contingentia mundi): si deve ammettere l’essere necessario, che è appunto ciò che esiste di per se stesso ed è il fondamento dell’esistenza dei possibili;

4) la prova dei gradi di perfezione: ogni cosa esistente ha un grado di perfezione; dovrà quindi pur esserci qualcosa che possiede la perfezione al sommo grado, e questo non può essere altri che Dio;

5) la prova tratta dal fine (o prova fisico-teleologica): deve esserci un essere infinitamente sapiente e onnipotente che assegna a ogni cosa il suo posto, in modo che essa realizzi la propria finalità intrinseca ed estrinseca.

Un’altra prova, che in tutti i secoli ebbe una larghissima fortuna per il suo carattere popolare, è quella tratta dal consenso di tutti i popoli, che si basa a sua volta su di un’idea di Dio che tutti gli uomini avrebbero scolpita, fin dalla nascita, nel proprio animo. Tutte queste prove ebbero all’interno stesso del cristianesimo le più forti opposizioni. In particolare all’analogia fra l’essere di Dio e l’essere del mondo, sostenuta da san Tommaso, si contrapponeva invece l’assoluta inconfrontabilità (equivocità) fra la realtà divina e quella del mondo creato e l’impossibilità per la ragione umana di superare in qualche modo quest’abisso. Limitati i diritti della ragione umana all’indagine dei fenomeni naturali e separati nettamente il piano della fede da quello della ragione, siffatta tendenza faceva di Dio l’esclusivo oggetto della fede. Riassumendo tutte le obiezioni che nel corso dei secoli erano state rivolte alle dimostrazioni dell’esistenza di Dio, Kant concluderà nella Critica della ragion pura che di Dio, così come di ogni altra realtà assoluta, non si dà scienza, e che la scienza è possibile solo entro l’ordine dei fenomeni, dove l’esperienza sensibile può fornire un contenuto ai nostri concetti. Stabilito che Dio, e insieme a Dio qualsiasi realtà assoluta, rimane inattingibile alla ragione umana, solo il relativo, il fenomenico può essere l’unico oggetto della conoscenza. Nell’empirismo novecentesco, infine, non solo la teologia speculativa, ma anche la metafisica, vengono analogamente liquidate come pseudo-scienze.