Dizionario del Cristianesimo

A B C D E F G I L M N O P Q R S T V

Introduzione

Al di là della sua ormai fondata storicità, la figura di Gesù Cristo si è modellata prima di tutto su un’idea antropologicamente ben determinata di “salvatore” del cosmo, fautore, fuori di ogni dogma  e di ogni credo particolare, del riscatto della buona creazione di Dio  dal male e dalla morte. Elemento fondante di una specifica soteriologia (= storia della salvezza; analoga e dissimile da altre religioni salvifiche quali il buddhismo o ancor più il manicheismo o il mandeismo), il Gesù Cristo autore della redenzione  (il mistero “di salvezza” che egli, per sommo sacerdozio, celebra a beneficio dell’uomo) rimane sospeso tra la dimensione di un’escatologia (= riflessione sul senso ultimo dell’essere umano) individuale e universale e il più prossimo orizzonte dell’etica, ed è investito nell’incarnazione di un particolare portato ontologico che ne travalica la figura umana (accostata ora ai grandi maestri di morale ebraica, ora a pensatori dai tratti carismatici, come Socrate o Gautama Buddha, ora a profeti e visionari ispirati come Zarathustra o Muhammad, ben più raramente intesa nel suo tempo storico).

Gesù Cristo, il fondatore del cristianesimo

Per il Secondo Testamento, è il Messia  predetto dai profeti e il Figlio di Dio. La fonte storica che ci informa sulla vita, l’opera, il messaggio di Gesù di Nazaret è quasi esclusivamente il Secondo Testamento, anche se egli è menzionato da testi giudaici (Giuseppe Flavio, il Talmud) e classici (Tacito, Svetonio). L’indagine storico-critica sul Secondo Testamento si è sviluppata soprattutto a partire dalla prima metà del XIX secolo, attraverso varie fasi: l’individuazione delle fonti, scritte e orali, sottostanti al Secondo Testamento; il tentativo di definire l’“essenza del cristianesimo ” (Adolf von Harnack, 1900), cioè il nucleo permanente dell’insegnamento di Gesù; indi la reazione contro tale tendenza. Questa reazione ha messo in luce quanto la formulazione secondo-testamentaria del messaggio di Gesù e della Chiesa  primitiva sia condizionata dal giudaismo contemporaneo (in particolare per quanto riguarda l’attesa escatologica del regno di Dio: Albert Schweitzer, 1913), dalla religiosità ellenistica e orientale e infine dalle esigenze vitali della prima comunità cristiana (Rudolf Bultmann, 1921). Lo sforzo di superare il diaframma tra il “Cristo storico” e il “Cristo della fede ” caratterizza la fase più recente dell’indagine storico-critica. È vero che l’immagine di Gesù Cristo ci giunge attraverso gli scritti secondo-testamentari, i quali già riflettono la fede nella risurrezione  e i nuovi problemi che la Chiesa primitiva deve affrontare in un ambiente, in una cultura, con una lingua diversi da quelli palestinesi in cui Gesù si era mosso ed espresso: dalla Palestina, con il giudaismo e la lingua aramaica, si passa all’Impero romano, con la cultura ellenistica e la lingua greca: oggi però si sottolinea che il “Cristo della fede” non poteva e non può essere creduto e predicato senza il fondamento dell’esistenza storica di Gesù: il ritratto che la Chiesa primitiva dà di Gesù non modifica sostanzialmente, ma attualizza piuttosto la parola e l’opera di Gesù stesso. I Vangeli , soprattutto i Sinottici, sono un documento fondamentalmente attendibile, anche se occorre vedervi non una biografia in senso moderno, ma una narrazione che è insieme un documento in cui si esprime la fede della comunità primitiva. Ciò spiega l’assenza di determinati particolari (per esempio, sulla persona fisica di Gesù) o la presenza di diversi angoli visuali o addirittura di alcuni dati contrastanti (che non escludono tuttavia una sostanziale coerenza e fedeltà).

La vita

L’infanzia di Gesù è trattata sommariamente da Matteo e Luca: la sua nascita verginale è dovuta all’intervento dello Spirito Santo ; il nome Gesù (Yoshûa`, Dio salva), frequente nel Primo Testamento, è suggerito da un angelo. La data della nascita, corretta la datazione di Dionigi il Piccolo, non può essere fissata con esattezza: si può collocare tra il 9 e il 5 a.C. Secondo il racconto evangelico, Gesù nasce a Betlemme in Giudea, ma la sua formazione avviene a Nazaret, in Galilea che è anche il suo primo campo d’azione. La sua missione inizia con il battesimo  nel Giordano a opera di Giovanni il Battista e si sviluppa con la predicazione del regno di Dio confermata da miracoli . La durata del ministero di Gesù non può essere stabilita con esattezza (tre anni, secondo la tradizione) e neppure gli itinerari da lui seguiti nella missione (un solo lungo viaggio dalla Galilea a Gerusalemme secondo i Sinottici; più viaggi, secondo Giovanni). La parola e l’opera di Gesù suscitano consenso: in particolare, si forma una schiera ristretta di discepoli, i quali a loro volta sono inviati (apostoli ) a predicare la venuta imminente del regno di Dio. Ma vi è anche la dura reazione del mondo religioso giudaico, soprattutto dei sacerdoti, cui si deve la drammatica conclusione della missione di Gesù. Sugli ultimi giorni di Gesù la documentazione evangelica è abbondante: egli è condannato dalle autorità giudaiche per “bestemmia”, ovvero per la sua pretesa a una missione e a una dignità trascendente; dalle autorità romane come ribelle. Viene messo a morte per crocifissione, ma la testimonianza della Chiesa primitiva (benché trasmessa dai Vangeli con alcuni particolari secondari discordanti) è concorde nell’affermare la sua risurrezione: Gesù appare più volte, sia agli apostoli sia a una cerchia più vasta di credenti; s’intrattiene con i discepoli prima di ascendere “alla destra del Padre”. Nell’attesa del suo ritorno i discepoli, sostenuti nella Pentecoste  dalla discesa dello Spirito, iniziano la loro missione.

Il messaggio

La predicazione di Gesù si compendia nell’annuncio dell’approssimarsi del regno di Dio, annuncio che compie l’attesa d’Israele, la quale si esprimeva anche nei cosiddetti scritti apocalittici: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino ” (Mc 1, 15). Questo è l’“Evangelo”, che Gesù espone ora direttamente, ora in parabole, ora proclamandolo alle folle, ora facendone l’oggetto di una catechesi  più ristretta; e comunicandolo sia attraverso la parola sia con i miracoli (soprattutto le guarigioni), che ne offrono una più concreta, tangibile dimostrazione. Alla solenne affermazione dell’imminente e definitiva instaurazione della sovranità di Dio si collega il rovesciamento di tutte le categorie terrestri: sono proclamati “beati” i poveri, i perseguitati, gli esclusi, i diseredati, mentre violenta è la condanna che investe ogni forma di ricchezza e di potere, e colpisce quella sicurezza che consiste nell’orgoglioso e compiaciuto possesso della legge: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti […]” (Mt 23). Eppure Gesù non intende “abolire” ma “compiere la legge e i profeti” (Mt 5, 17): all’esteriorità dell’osservanza legale, alla molteplicità dei precetti e delle interpretazioni, Gesù contrappone l’obbedienza interiore e sostanziale ai due comandamenti in cui, anche secondo l’insegnamento del Primo Testamento (non dimenticato del resto neppure al tempo di Gesù da taluni insigni maestri ebrei), si compendia la legge: l’amore di Dio e del prossimo. Gesù non si presenta tuttavia come dottore della Legge e neppure come sacerdote. Alla religiosità ostentata ed esteriore, alla complessità dei riti, delle preghiere, delle mediazioni culturali egli oppone una preghiera  interiore, semplice, fiduciosa, immediata di cui il “Padre nostro” è modello. In questa preghiera Dio appare come padre misericordioso e provvido: infatti, di tutto l’insegnamento di Gesù sono cardine la paternità di Dio e la conseguente fratellanza umana. Questo insegnamento deve essere tuttavia sempre compreso in chiave escatologica, cioè alla luce dell’attesa della venuta del regno; perciò l’appello di Gesù è particolarmente pressante: “ravvedetevi ” (metanoêite, che propriamente significa “mutate mente”) “e credete all’Evangelo” (Mc 1, 15).

La Chiesa

La tensione escatologica che pervade tutto il messaggio di Gesù non esclude né contraddice l’intenzione di fondare la sua comunità, la Chiesa. Non solo la promessa a Pietro (“Su questa pietra edificherò la mia Chiesa”, Mt 16, 18), ma il titolo stesso di “Figlio dell’uomo” che Gesù assume, in quanto racchiude in sé, nella tradizione apocalittica, l’idea di una comunità messianica di un “popolo di santi ” (Dn 7), è significativo di questa intenzione. Lo stesso dicasi dell’eucaristia , istituita da Gesù nell’imminenza della sua morte: la dimensione ecclesiale è ineliminabile, soprattutto per quanto riguarda il calice che è la “nuova alleanza” (Lc 22, 20; 1Cor 11, 25). Infatti, come l’antica alleanza  sul Sinai fondava Israele, così la nuova alleanza suppone un nuovo popolo, la Chiesa. Ben più difficile è discernere e precisare l’intenzione di Gesù per quanto riguarda le strutture concrete della comunità.

La cristologia delle comunità apostoliche

Ma Gesù non è tutto e solo nel suo messaggio, Gesù non è solo araldo e maestro. Egli non si limita ad annunciare il regno futuro: con la sua opera, con la sua parola, con i suoi miracoli esprime la presenza già attuale del regno (Mt 12, 28). Gesù è il regno (così si esprimeva Origene). All’insegnamento di Gesù va dunque strettamente unita la cristologia nel Secondo Testamento. Essa si compendia nei “titoli” con cui Gesù viene chiamato: Gesù è il “Cristo” (dal greco Christòs) cioè il messia (dall’ebraico Mashiah, v. Messia e messianismo ) vale a dire l’unto, il consacrato e l’inviato da Dio; il “Figlio dell’uomo”; il “Figlio di David”; il “Maestro”; il “Signore” (dal greco Kyrios); il “Figlio di Dio”; il “Servo di Dio”; il “Salvatore” il “nuovo Adamo”; il “Mediatore”; l’“Agnello di Dio”; il “Sommo Sacerdote”; il “Santo”; il “Giusto”; il “Capo” della Chiesa; il “Verbo” (Lògos) di Dio. La critica più recente mette in rilievo l’importanza del titolo “Figlio dell’uomo”, con cui Gesù stesso si presenta con singolare frequenza (30 volte in Matteo; 14 in Marco; 25 in Luca), mentre il titolo di “Cristo” non è accettato da Gesù senza riserve a motivo della sua ambiguità politico-religiosa. Il primo titolo risale, come si è detto, all’apocalittica giudaica (soprattutto al Libro di Daniele) e sta a indicare i due aspetti della sua opera: Gesù è il giusto sofferente e perseguitato, ma anche innalzato nella pienezza della gloria, come futuro giudice. L’espressione “Figlio di Dio” va compresa sia alla luce della funzione del messia, il quale rappresenta tutto Israele, esso stesso definito con tale titolo dalla tradizione, sia alla luce del mistero dell’Incarnazione . L’antica immagine del capostipite che riassume in sé tutte le generazioni (Adamo, Giacobbe) è probabilmente alla base dell’idea del Cristo “nuovo Adamo” e forse anche di Cristo “Capo della Chiesa” (immagine propria degli scritti paolini, dove però interviene anche la rappresentazione greco-ellenistica del cosmo come corpo divino). A Gesù, come a giusto perseguitato, viene applicata l’immagine dell’agnello, che proviene da Is 53 (il “Servo del Signore”). Il titolo “Signore” va probabilmente collegato all’idea di Gesù come “Figlio dell’uomo”, prima umiliato, poi esaltato alla destra di Dio e partecipe della signoria divina (Fil 2, 5-11). Questo titolo non può risalire solo a un influsso ellenistico: ne fa fede l’applicazione, frequentissima nel Secondo Testamento, del Salmo 110 a Gesù (“Ha detto il Signore al mio Signore […]”) e più ancora la designazione di Gesù come “nostro Signore” già in aramaico, con la formula maranatha (“Vieni Signore!” oppure “Il nostro Signore viene”). La definizione di Gesù come “Verbo” (o Parola) di Dio si può comprendere alla luce delle speculazioni del giudaismo sulla Sapienza divina personificata, preesistente alla creazione.

La cristologia dei primi secoli

Gli ulteriori sviluppi della cristologia sono segnati da un approfondimento che avviene sotto la spinta dei compiti missionari e della dialettica interna che la Chiesa deve affrontare. Essa deve faticosamente trovare la propria strada, scontrandosi ben presto con concezioni riduttive, come la prospettiva degli ebioniti, in cui Gesù è concepito, sulla linea del Primo Testamento, quale messia giudaico; o con reinterpretazioni globali, come quella dello gnosticismo, in cui l’incarnazione è pura apparenza (docetismo). L’elaborazione cristologica degli apologisti del II secolo si riallaccia soprattutto al “Verbo” di Giovanni: la parola di Dio si è variamente manifestata attraverso il tempo, anche al di fuori di Israele, nello stesso paganesimo, ma si manifesta pienamente in Gesù Cristo. Nella seconda metà del II secolo Ireneo di Lione sviluppa, riprendendo Paolo, la dottrina della “ricapitolazione” di tutta la storia e di tutta l’umanità nel Cristo. Sino a questo momento, tuttavia, la cristologia non si domanda in termini speculativi quale sia la natura di Cristo in sé, ma s’interessa alla sua funzione salvifica, alla sua missione per gli uomini, per la salvezza dell’umanità. La stessa iconografia riflette tale concezione: l’immagine prevalente in questo periodo è quella di Gesù raffigurato come il Buon Pastore. All’affermazione esplicita della divino-umanità di Cristo nell’unità della sua persona si giunge attraverso le lotte cristologiche che occupano soprattutto i secoli IV e V. Affermando l’unicità di Dio, l’arianesimo nega che il Figlio sia veramente Dio. Il Credo  del Concilio  di Nicea (325) replica affermando che Gesù Cristo è “della sostanza (homooùsios) del Padre” e che “si è fatto uomo”. Preoccupato invece di garantire la divinità del Cristo, Apollinare di Laodicea (310-390) afferma che la natura divina si sostituisce allo spirito di Gesù uomo. D’altra parte, Nestorio (381-451), intendendo preservare la realtà dell’esperienza puramente umana di Gesù, sembra quasi giungere ad affermare che in Cristo sono presenti due persone. L’unicità della persona del Cristo è affermata dal Concilio di Efeso (431): colui che è generato da Maria  è Dio, e Maria è “madre di Dio”. All’affermazione esplicita che in Cristo vi sono due nature, divina e umana, “senza confusione, senza scambio, senza divisione, senza separazione”, si giunge nel Concilio di Calcedonia (451), contro il monofisismo di Eutiche (378-454), secondo il quale, dopo l’incarnazione, una sola è la natura di Cristo, quella divina. La distinzione tra natura e persona è alla base di questa chiarificazione, che tuttavia non trova accoglienza unanime in tutta la cristianità (spesso per ragioni più terminologiche che sostanziali). La lotta contro il monofisismo (il Concilio di Costantinopoli, 553) e contro il monotelismo (una sola volontà in Cristo, III Concilio di Costantinopoli, 680-681) contraddistingue i secoli successivi. Attraverso l’opera di questi concili, la cristologia giunge a una sistemazione che rimarrà stabile per lungo tempo: la teologia  bizantina continuerà a rifarsi a essa, l’iconografia mutua da essa la figura solenne del Cristo pantokràtôr (onnipotente) spesso raffigurato nelle absidi basilicali, del Crocifisso in abiti regali, di Maria theotòkos (madre di Dio).

La cristologia medievale e moderna

La teologia medievale, mentre si misura con una serie di problemi teologici connessi alla cristologia (motivi e modalità dell’incarnazione, la coscienza di Cristo, diverse forme di presenza di Cristo, con particolare riguardo ai sacramenti ), continua a ruotare sui cardini della cristologia dei primi concili. La pietà popolare accentra l’attenzione sui diversi aspetti e momenti (“misteri”) della vita umana di Gesù, attribuendo a essi un particolare valore salvifico. Sempre maggiore attenzione riceve la natività: ma l’altro polo, il più importante, è costituito dalla passione  di Gesù (Via crucis), mentre sembra recedere il tema della risurrezione, non come contenuto dogmatico, ma come incidenza sulla devozione. Offrono un riflesso di queste tendenze i documenti figurativi, che dal simbolismo dogmatico e dalla stilizzazione dell’icona  passano all’emotività e al realismo della pittura quattrocentesca, per giungere in seguito ai contenuti ormai umanistici della raffigurazione religiosa del Rinascimento. La Riforma  protestante si allinea sostanzialmente sull’ortodossia segnata dai primi concili, con la tendenza, tuttavia, a sottolineare (nel luteranesimo) la divinità della persona di Cristo e a vedere nell’assunzione dell’umanità da parte di Cristo una sorta di rinuncia temporanea all’uso delle prerogative divine, cui egli farebbe solo raramente eccezione. Si nota inoltre in genere, nella spiritualità protestante, un’accentuazione della differenza tra il divino e l’umano in Cristo.

Il problema cristologico dal Settecento al Novecento

Il problema cristologico viene ripreso alle sue radici solo a partire dal XVIII secolo. Il razionalismo tenta la riduzione del cristianesimo entro i limiti della ragione (Kant) e l’attenzione si sposta dai contenuti dogmatici del cristianesimo a quelli etici. Hegel presta invece piena attenzione all’incarnazione come fatto dogmatico, ma vede in essa la rappresentazione di una realtà d’ordine speculativo: la riconciliazione dell’idea assoluta con la storia. Friedrich Schleiermacher (teologo, 1768-1834) ravvisa la divinità di Cristo nella “coscienza” di una relazione straordinaria, unica, di Gesù con Dio Padre. Secondo la scuola di Albrecht Ritschl (teologo, 1822-89), la divinità di Cristo non è oggetto di un giudizio storico, di fatto, ma di un giudizio di valore; e questa tendenza si ritrova in tutta la teologia “liberale”, che presta attenzione piuttosto all’insegnamento di Gesù che ai fatti dogmatici (incarnazione, miracoli, risurrezione) rivelatori della sua divino-umanità: è sostanzialmente il maestro che insegna la paternità divina e la fratellanza umana. La teologia tra le due guerre mondiali è tuttavia segnata dal recupero, nell’ambito delle diverse confessioni, di una cristologia più biblica e più tradizionale: Cristo è la parola di Dio, che miracolosamente congiunge nella sua umanità due realtà radicalmente eterogenee, Dio e uomo (Karl Barth, teologo protestante, 1886-1968). La Chiesa viene ricompresa come corpo di Cristo: di questo approfondimento è testimonianza, nella prospettiva istituzionale cattolico-romana, l’enciclica Mystici corporis (1943) di Pio XII. A partire dagli anni ‘50 del Novecento campeggia, nell’ambito cattolico, la figura di Karl Rahner (teologo, 1904-84), fautore della cosiddetta “svolta antropologica” nella cristologia, cioè sostanzialmente di una comprensione più adeguata del ruolo della natura umana del Verbo incarnato. Contemporaneamente Yves Congar (teologo, 1904-95) mette in discussione il parallelismo tra divino-umanità nel Cristo e divino-umanità nella Chiesa, ridimensionando, così, un’analogia che nella Mystici corporis era stata portata molto avanti, sulla via del più spiccato “ecclesiocentrismo” (la Chiesa come “prolungamento” dell’incarnazione). Durante gli anni ‘60 la cristologia cattolica apre i suoi orizzonti a diversi apporti esterni. Si afferma l’opera di Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955) che, ricorrendo al modello evoluzionistico mutuato dalle scienze della natura, contempla, in una visione più mistica che, ricorrendo al modello evoluzionistico mutuato dalle scienze della natura, contempla, in una visione più mistica che teologico-scientifica, il processo di “cristificazione” di tutto l’universo. Si diffondono d’altro canto i risultati della ricerca esegetica, cattolica e soprattutto protestante; viene letta l’opera di Dietrich Bonhoeffer (1906-45), in particolare l’ultimissima produzione, pervasa da profonde istanze di critica e di rinnovamento: da queste, e da altre molteplici suggestioni, viene fatta derivare una relativizzazione della dimensione “sovrumana” del Cristo. In coincidenza con il disagio, l’inquietudine e le scosse che percorrono la società civile e ampi strati della Chiesa, con la messa in questione delle istituzioni e dei ruoli si propongono parole d’ordine come “crisi della religione” (a “religione” si oppone “fede”), “morte di Dio” e, subito dopo, “teologia politica”: quest’ultima tende a delineare una nuova immagine e una nuova esemplarità di Gesù di Nazaret. Egli è qui piuttosto il “provocatore”, il “contestatore”, colui che, con la sua predicazione e con i suoi gesti, si prefigge essenzialmente la distruzione di ogni potere politico e religioso in vista dell’instaurazione del regno.

La cristologia contemporanea

Dagli anni '70 del Novecento in poi, la cristologia sembra caratterizzata dalla ricerca di nuove sintesi, di cui sono rappresentativi autori sia cattolici Piet Schoonenberg, Hans Küng, Walter Kasper, Christian Duquoc, Edward Schillebeeckx (ma autori come Hans Urs von Balthasar, Karl Rahner, Louis Bouyer sono tuttora all’opera, e così anche i fautori di una teologia politica) sia protestanti (Wolfhart Pannenberg, Jürgen Moltmann). Si richiamano qui alcuni dei tratti più significativi di questa produzione più recente.

1) La crescente integrazione della cristologia “dogmatica” con la ricerca esegetica (esegesi biblica ), qualunque sia la sua provenienza confessionale. Di questa vengono utilizzati i risultati, anche se non sempre e definitivamente consolidati e spesso eversivi, di posizioni e convincimenti tradizionali. Ne deriva un certo scetticismo circa la possibilità di rispondere oggi in maniera esaustiva alla domanda: “Chi è Cristo?”, rifacendosi soltanto, secondo la tradizione, alla coscienza che Gesù ha di sé e alle parole che nel Secondo Testamento dovrebbero riflettere tale coscienza, soprattutto i titoli cristologici già citati. Tali titoli vengono ora considerati come non più del tutto corrispondenti alle esigenze dell’odierna confessione e proclamazione della fede. Ne nasce la necessità di creare nuove immagini del Cristo, nuovi “titoli” storicamente adeguati a una fede vissuta nel presente (così Duquoc, Schillebeeckx, Pannenberg, Moltmann).

2) La perdita di contatto (ciò vale soprattutto per i cattolici, fra cui Kasper è un’eccezione; diverso e più positivo è l’atteggiamento del protestante Pannenberg) rispetto ai dati della tradizione e all’insegnamento magistrale, ma anche rispetto alla storia del dogma e delle dottrine teologiche. Ciò avviene per un proposito esplicito di semplificazione e di attualizzazione, per cui si tende a passare direttamente dall’esame delle risultanze bibliche alla formulazione della proposta teologica valida per il presente (così Küng, Schillebeeckx). Viene tuttavia così evitato il confronto, pur istruttivo, con alcuni momenti decisivi, anche recenti, del dibattito cristologico: per esempio, la teologia liberale, il modernismo cattolico, la teologia e la filosofia religiosa russo-ortodossa.

3) È inoltre evidente l’abbandono dell’istanza speculativa, che condizionava la cristologia sia nei temi sia nel metodo. Problemi gravi, vivacemente dibattuti dagli anni ‘20 agli anni ‘50 del Novecento da Barth, Brunner, von Balthasar, de Lubac, Rahner, dallo stesso Küng, sono ora invece messi tra parentesi, sotto la spinta di una preoccupazione più direttamente vitale: “esistenziale” si potrebbe dire, senza dimenticare però la forte enfasi anti individualistica e “politica” che pervade la più recente letteratura teologica.

4) In connessione con l’osservazione precedente, e nonostante il rilevato ampliamento di orizzonte caratteristico dell’attuale riflessione e produzione in materia cristologica, continua a notarsi (nei due ambiti, cattolico e protestante) una sproporzione tra l’ormai piena acquisizione dei metodi esegetici e la carenza di un confronto reale con le fonti più rilevanti della cultura moderna (“postcristiana”), la quale pare conosciuta più nei suoi epigoni che nei suoi momenti fondanti e creativi.

5) Infine, rimane per grandissima parte da adempiere il compito di una cristologia “ecumenica ” nel senso più lato, obiettivo e rigoroso del termine: cioè il confronto con la storia delle religioni e primariamente con quelle espressioni religiose che si saldano su uno stesso ceppo e si dividono solo nello sviluppo: ebraismo e, in parte, islam.

Il dialogo tra i monoteisti

Nel recente dialogo interreligioso osserviamo che: tutte e tre le grandi religioni monoteistiche del libro hanno un riferimento a Gesù: l’ebraismo gli ha dato i natali, la cultura, la ricchezza religiosa; il cristianesimo guarda a lui come al proprio fondatore; l’islam lo conosce sia per il suo cammino storico, sia per il culto che gli tributano i cristiani. In questa molteplice relazione si articolano diverse prese di posizione e contrastanti sentimenti. Se l’ebraismo antico tendeva a esecrare la persona di Gesù, quello moderno tende invece a un processo di riappropriazione di un membro del proprio popolo, spesso ritenuto tradito dal pensiero cristiano. Il cristianesimo si è trovato costretto a elaborare fin dall’inizio i criteri per distinguere l’interpretazione ortodossa da quella eterodossa del mistero di Gesù e ha di volta in volta confermato la propria fede nella divinità di Gesù, uomo-Dio. Proprio questa fede costituisce una delle difficoltà più gravi nel dialogo, sia con l’ebraismo sia con l’islam. Quest’ultimo ha avuto, alle sue origini, una conoscenza molto imperfetta della vicenda di Gesù a causa delle cattive fonti d’informazione dei Vangeli apocrifi. Se i conquistatori islamici mostrarono un certo rispetto verso i loro sudditi che professavano la fede in Gesù, tuttavia non la ritennero mai giustificata, anche perché il Corano la fa oggetto di forti critiche. Gesù può dirsi oggetto di grande interesse da parte di queste religioni; è stato e resta motivo di divisione ma continua pure a essere il termine di confronto irrinunciabile nel dialogo interreligioso.

L’immagine di Cristo nella comunità dei fedeli

Si è tracciato fin qui un sintetico profilo dei risultati della ricerca esegetica sulla vicenda storica di Gesù e delle diverse cristologie che la riflessione teologica e il magistero dogmatico delle Chiese hanno espresso attraverso il tempo, sino ai giorni nostri. Ma i dati forniti dalle fonti testamentarie (mediati dall’esegesi, cui spetta di rendere tali fonti più o meno “parlanti”) e le conclusioni ricavabili dalla storia dei dogmi o dalla storia della teologia rappresentano la risposta di una parte, sia pur significativa (i teologi, i maestri e pastori delle singole Chiese), per rapporto a quella totalità religiosa o “ecclesiale” costituita dalle generazioni dei credenti che, riconoscendo in Gesù il Cristo, lo hanno assunto come punto di riferimento totale della loro esistenza. Si pone quindi l’esigenza di indagare sulla testimonianza resa a Gesù, nelle forme talvolta più oscure e indirette, dalla comunità di credenti (intendendo “comunità” e “fede” nel senso più lato possibile). D’altra parte, è assai difficile ricostruire una storia dell’“immagine di Cristo interna alla fede”, poiché essa è fatta di esperienze sostanzialmente esclusive, in certo senso non comunicabili e irripetibili: è purtuttavia pensabile l’abbozzo di una storia dei modi e delle forme diverse in cui la figura di Cristo è stata presente nella coscienza della comunità credente, nel corso delle generazioni, al di là e accanto alla cristologia dotta e ufficiale. Tale ricerca dovrebbe fondarsi, in modo particolare, sulle fonti che qui si indicano.

1) La liturgia  e le forme paraliturgiche, le quali, con maggior o minor fedeltà, hanno avuto storicamente il compito di mediare tra le formulazioni dogmatiche dotte e le esigenze della pietà comunitaria. Si pensi alla formulazione culturale che la liturgia bizantina ha dato ai dogmi dei primi concili, proponendo all’adorazione dei fedeli il Cristo risorto e vittorioso sulla morte (“Cristo è risorto dai morti, distruggendo la morte con la morte e dando la vita a quanti erano nei sepolcri”, così il tropario pasquale bizantino), il Cristo pantokrátôr, Signore dell’universo; o come invece la pietà, anche liturgica, dell’Occidente, si sia concentrata come già si diceva, sulla tenera umanità di Gesù bambino (il Natale, il presepe), sulle sofferenze dell’ultimo cammino (la Via crucis), sulla dolcezza dell’amore umano-divino che tutto abbraccia e riscatta (il Sacro Cuore), ma anche sulla signoria storica del Cristo, capo della Chiesa e vincitore del mondo (il Cristo Re, con talune tentazioni temporalistiche).

2) Meritevoli di considerazione sono le forme assunte, attraverso la storia, dalla preghiera e dalla meditazione personale (culminanti nell’esperienza del misticismo): dall’austerità delle formule della liturgia romana (dove ci si rivolge al Padre, per Cristo, nello Spirito), alla semplicità della “preghiera di Gesù”, consistente essenzialmente nell’invocazione del suo nome: preghiera che, in vario modo, si diffonde sia in Occidente sia soprattutto in Oriente, con l’esicasmo: i Racconti di un pellegrino russo testimoniano la sua diffusione alla fine del XIX secolo.

3) Il materiale iconografico costituisce un sussidio essenziale, attraverso il quale la figura del Cristo può essere colta nella molteplicità di profili e di accentuazioni che la devozione e la pietà secolare gli hanno attribuito: ne è un esempio la differenza fra la tradizionale rappresentazione occidentale del Cristo crocifisso e la raffigurazione orientale, su icone in cui il Cristo è trasfigurato e glorioso, sin dalla nascita.

4) L’imitazione di Gesù, la “sequela” (dalle “gesta” ascetiche all’impegno caritativo, dalla contemplazione all’azione), suppongono parimenti una “cristologia pratica”, che enfatizza questo o quell’aspetto della testimonianza o dell’esempio di Gesù: di qui l’importanza dello studio storico della spiritualità e dell’etica cristiana sotto questo profilo, per trarre in evidenza il “modello cristologico normativo” che lo sottende.

5) Alla stessa attenzione dovrebbero essere sottoposte le fonti concernenti la predicazione, la missione, la catechesi, come strumenti atti, almeno in parte, a cogliere la traduzione in termini popolari e pastorali, del messaggio di Gesù, pastore e maestro, e quindi a cogliere la stessa immagine cristologica soggiacente.

Come si vede, si tratta di semplici linee di un’esplorazione ancora sostanzialmente da compiere. Si può ancora aggiungere l’indicazione di alcuni problemi di fondo, da tenersi sempre presenti. Si dovrà anzitutto prestare attenzione alle divisioni confessionali e alla loro reale rilevanza: sino a che punto tali divisioni (e prima ancora quelle geografico-culturali) trovino effettivo riscontro sul piano della sensibilità popolare, o non siano invece irrilevanti: per esempio, il culto dell’umanità sofferente di Gesù appare comune agli ambienti cattolici post-tridentini e a quelli protestanti in generale e pietisti in particolare (si pensi alla grande fioritura dell’innografia nei secoli XVII e XVIII, giunta alla massima espressione artistica nelle Passioni bachiane); la devozione del nome di Gesù nel tardo Medioevo e la “preghiera di Gesù” del monachesimo bizantino possono avere punti di contatto. In secondo luogo, sarà importante rilevare se prevalga la considerazione analitica o quella sintetica a proposito della vita, dell’opera, dell’insegnamento di Gesù: se, infatti, taluni movimenti religiosi traggono ispirazione da particolari tratti personali o gesti o parole di Gesù (per esempio, il celibato, la solitudine ascetica, il soccorso agli infermi e ai bisognosi, la comunione con gli apostoli, la predicazione missionaria), altri punti di vista (per esempio, quello di una certa teologia monastica, che approfondisce il significato del battesimo) assumono a riferimento la vicenda complessiva di Gesù, intesa come “uscire da Padre, venire nel mondo, tornare al Padre” (cfr. Gv 16, 28). D’importanza decisiva sarà infine verificare, anche a un livello più sotterraneo e vitale, la reale comprensione o intuizione degli elementi di novità presenti nel cristianesimo, in rapporto al giudaismo (prevalentemente dominato dal problema dell’osservanza dei comandamenti): quando il messaggio e l’itinerario di Gesù siano visti come legge, come esempio e norma, l’elemento più proprio e caratterizzante del cristianesimo rimarrà necessariamente in ombra, a favore di una comprensione etica (individuale o sociale) o ascetica. Invece il dato creativo, il fatto innovante di una “cristologia cristiana” sarà ben più rappresentato laddove al di là delle infinite possibili varianti espressive, al di là delle diverse formulazioni (esplicite, dirette, consapevoli, colte) Gesù emerga soprattutto nella sua statura e nel suo ruolo escatologico originario, portatore di salvezza con il dono della sua stessa vita.