Dizionario del Cristianesimo
Papa e papato
Indice
- Introduzione
- Diritto canonico
- Storia
- Origini
- Il papato nell’Impero romano
- Il papato, Bisanzio e le dominazioni barbariche
- Il potere temporale e il nuovo Impero d’Occidente
- L’anarchia feudale e il secolo di ferro del papato
- La riforma della Chiesa, la lotta delle investiture e le crociate
- Papato, impero e comuni: l’apogeo della teocrazia papale
- Il declinare della teocrazia papale: i pontefici, gli angioini e la Francia
- Il papato avignonese e lo scisma d’Occidente
- Il papato nel Rinascimento e le invasioni straniere in Italia
- Riforma e Controriforma
- Il Seicento
- Il Settecento e la Rivoluzione francese
- Dal XIX secolo ai giorni nostri
Introduzione
Appellativo attribuito in origine, tanto nel cristianesimo orientale quanto in quello occidentale, a qualunque alto dignitario della gerarchia ecclesiastica, e solo successivamente ristretto a vescovi, metropoliti e patriarchi, il nome di papa è indissolubilmente legato alle polemiche e ai problemi che la teologia (e soprattutto l’ecclesiologia) ravvisa nel preteso primato pontificio, sintesi di prerogative e privilegi non meramente onorifici vantati nel corso della bimillenaria storia della Chiesa dal vescovo di Roma quale capo spirituale del cattolicesimo, ribadita dalle proposizioni conciliari del Concilio di Trento (1545-63) e spesso denunciata dai rappresentanti di altre confessioni cristiane come il maggiore ostacolo all’ecumenismo e come causa prima di numerosi e dolorosissimi scismi sorti in seno alla comunità dei credenti.
Diritto canonico
Il papa è il capo visibile della Chiesa cattolica e a lui, come successore dell’apostolo Pietro nella cattedra vescovile di Roma, spetta anche la piena potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa, la quale riguarda sia ciò che concerne la fede e i costumi, sia la disciplina ecclesiastica. Egli è altresì titolare del Magistero ecclesiastico, che esercita da solo o insieme con i vescovi nel Concilio ecumenico. In quanto organo supremo della potestà di giurisdizione, si accentrano in lui i poteri legislativo, giudiziario e amministrativo, ed egli può riservare o avocare a sé singole facoltà o sostituirsi agli organi inferiori.
A lui competono i titoli di Sommo Pontefice, vescovo di Roma, vicario di Gesù Cristo, anche se viene più comunemente chiamato papa (dal greco pàpas e pàppas, padre), Santo Padre o, vocativamente, Santità e Beatissimo Padre. Egli è assistito nelle solenni cerimonie dalla cappella pontificia, che è formata dalle persone che lo accompagnano nell’imponente corteo, mentre alle mansioni interne di corte provvedono la famiglia pontificia, le varie amministrazioni palatine e i corpi armati pontifici. A lui compete la rappresentanza di tutta la Chiesa: egli tratta con i capi di Stato, presso i quali può essere rappresentato dai suoi legati (nunzi e internunzi), mentre i capi di Stato, a loro volta, accreditano presso di lui i loro agenti diplomatici. Al papa è riconosciuta la piena sovranità temporale sullo Stato della Città del Vaticano, mentre, quale vescovo di Roma, egli ha un cardinale vicario, il quale è coadiuvato dagli ufficiali di curia per il governo di quella diocesi. La vacanza del pontificato può verificarsi per morte o per rinuncia: da quel momento il potere viene esercitato collegialmente dai cardinali, ma di fatto è esercitato dal solo camerlengo, assistito dai decani dei tre ordini cardinalizi, ed è limitato al disbrigo degli affari urgenti. Entro quindici o, al massimo, venti giorni i cardinali, convocati dal decano, si riuniscono in conclave per eleggere il nuovo papa, spettando a essi esclusivamente tale diritto dal 1059. L’elezione è disciplinata dalla costituzione di Paolo VI Romano pontifici eligendo del 10-10-1975 e può avvenire in tre modi: per ispirazione, per compromesso o per scrutinio; il primo si verifica quando i cardinali, veluti afflati Spiritu Sancto, designano unanimemente e palesemente il papa; il secondo quando gli stessi, anziché procedere all’elezione direttamente, ne danno il mandato a un gruppo fra essi in numero dispari non inferiore a nove, né superiore a quindici; il terzo è quello normale per votazione segreta. Le operazioni di voto si svolgono nel seguente modo: ciascun cardinale scrive il nome dell’eligendo su di una scheda, che viene riposta in un’urna a forma di grande calice; successivamente i cardinali scrutatori aprono le schede e se qualcuno ha ottenuto almeno due terzi più uno dei voti è eletto. Le schede vengono bruciate da sole se lo scrutinio ha avuto esito positivo, con l’aggiunta di particolari sostanze se l’esito è stato invece negativo, così che il fumo che ne risulta, uscendo da uno speciale fumaiolo, è bianco e leggero nel primo caso, nero e denso nel secondo. Gli scrutini vengono ripetuti quattro volte al giorno (due in mattinata e due nel pomeriggio) nella Cappella Sistina, finché non avvenga l’elezione: può essere eletto qualsiasi maschio battezzato (il quale, se non ancora ordinato sacerdote e consacrato vescovo, riceverà subito l’ordine sacerdotale e la consacrazione episcopale), ma dal 1378 la scelta è sempre caduta su di un cardinale. Richiesto dal cardinale decano, l’eletto deve esprimere la sua accettazione e scegliersi il nome. Il papa esercita il suo potere con la collaborazione di una serie di collegi e dicasteri: il Sacro collegio dei cardinali, la Curia romana, comprendente la Segreteria di Stato, le congregazioni romane, i tribunali ecclesiastici, i pontifici consigli e gli uffici della Curia romana; il papa e tutti questi organismi, presi nel loro complesso, prendono il nome di Santa Sede.
Storia
Origini
Oscure sono le origini della comunità cristiana di Roma, ma esse risalgono almeno al I secolo, ai tempi della persecuzione degli apostoli Pietro e Paolo (64 d.C.); già nella seconda metà del II secolo la loro Chiesa era meta di pellegrinaggio. Affermatasi e rafforzatasi nel III secolo, sotto Costantino, alla Chiesa cristiana venne infine riconosciuta piena libertà di culto (313).
Il papato nell’Impero romano
Nel 325, il Concilio di Nicea riconobbe al vescovo di Roma la posizione di primate d’Italia. Dal 451, con il Concilio di Calcedonia, vennero istituiti cinque patriarcati: Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme, senza però che Roma, per lungo tempo, riconoscesse a Costantinopoli tale rango. I vescovi romani rivendicavano non solo una primazia di onore, ma anche di direzione e di comando, in quanto il vescovo di Roma era il successore di Pietro al quale Cristo stesso aveva affidato le chiavi, cioè il potere di sciogliere e legare, e le pecore, cioè il gregge cristiano da pascolare. Con Leone I (440-461) i princìpi di supremazia romana, anche nelle contese dogmatiche interne, furono affermati energicamente, grazie soprattutto al primato incontestato del vescovo di Roma in Occidente e alla sua posizione di unico metropolita dell’Italia centrale e meridionale, con un corpo episcopale da lui dipendente. L’Italia settentrionale era al contrario divisa tra le metropoli di Milano, Aquileia e Ravenna, quest’ultima creata dallo stesso vescovo di Roma, a cui rimaneva direttamente soggetta. A Roma si contrapponeva invece il vescovo di Costantinopoli, profittando della forza che gli veniva dall’essere la città la nuova capitale dell’Impero. Si ebbe così nella seconda metà del V secolo lo scisma fra le due sedi, provocato dal patriarca di Costantinopoli Acacio, promotore di una diversa formula di fede cristologica.
Il papato, Bisanzio e le dominazioni barbariche
L’arrivo di barbari ariani in Italia giovò al potere del vescovo romano, in quanto essi non pretesero di esercitare un controllo sulla vita ecclesiastica e anzi sottrassero il papato alla pressione diretta di Bisanzio. Diversamente, il dominio bizantino dopo il 535 portò a un’ingerenza imperiale maggiore nelle cose ecclesiastiche, a partire dalla nomina del pontefice, come si vide nella deposizione di papa Silverio (537) e nella questione dei Tre capitoli (537-555). Al contempo, però, l’amministrazione bizantina attribuì grandi poteri al vescovo di Roma in materia di governo civile e gli assicurò cospicui patrimoni fondiari.
Il pontificato di Gregorio I (590-604) fu una tappa importante nello sviluppo e nel rafforzamento dell’organizzazione ecclesiastica: egli avviò relazioni con i longobardi, intensificò i rapporti con gli altri Stati barbarici e prese parte più attiva alla politica italiana. Le popolazioni italiche cominciarono a considerare il papa come loro rappresentante e protettore di fronte all’Impero; solo l’arcivescovo di Ravenna tentò, invano, di affermare la propria indipendenza, appoggiato temporaneamente dall’Impero stesso.
Il potere temporale e il nuovo Impero d’Occidente
Nell’VIII secolo Gregorio II (715-731) e Gregorio III (731-741), nel contesto del conflitto iconoclastico con l’Oriente, sostennero la ribellione dei territori italici soggetti a Bisanzio, opponendosi però nel contempo alla definitiva separazione della Penisola, per non favorire una nuova dominazione, quella dei longobardi, anche se, inizialmente, proprio il pontefice si era giovato della loro espansione: la donazione di Sutri (728) infatti aveva segnato l’inizio del potere temporale dei papi. Ma quando la pressione longobarda giunse a mettere in pericolo il suo potere temporale, il papato fece appello alla potenza di un altro popolo emergente, i franchi. Nel 753 Stefano II consacrò alla dignità regia Pipino, primo re dei Carolingi, che s’impegnò a proteggere la Chiesa e Roma e a far restituire al vescovo i diritti e le terre usurpate dai longobardi. Così nel 756 il pontefice acquisì l’Esarcato e la Pentapoli, mentre la cosiddetta “Donazione di Costantino” servì a proclamare i diritti del papa su Roma, l’Italia e l’Occidente, giustificando il distacco dall’Impero bizantino. Con la vittoria su Desiderio (773-74), ultimo re longobardo, da parte di Carlo Magno, fu assicurata definitivamente la costituzione del potere temporale del pontefice e ribadita l’alleanza con i Carolingi. Quest’alleanza fu importante anche per le sorti della Francia e della Germania. In nome dell’autorità papale, san Bonifacio compì in Germania un’opera di evangelizzazione e di organizzazione ecclesiastica, a cui successe quella di riforma della Chiesa franca, che venne strettamente relazionata a Roma, rimanendo però soggetta al controllo dei re carolingi. La combinazione di questi elementi – l’ascesa di Carlo Magno e la sua alleanza con il papato, la rottura papale con Bisanzio – portò alla nascita del nuovo Impero d’Occidente, con l’incoronazione di Carlo in San Pietro a opera di Leone III (800). Esso, tuttavia, sorgeva su un equivoco di fondo: l’imperatore avrebbe dovuto essere il sovrano di Roma e, come tale, sovrano temporale del pontefice, dal quale però riceveva la dignità imperiale, tanto che il papa si considerava controllore del suo operato. Non a caso, morto Carlo (814), si manifestarono subito tendenze conflittuali fra Chiesa e Impero. Se Stefano IV fu consacrato (816) senza il consenso imperiale, Lotario riaffermò invece l’autorità dell’Impero su Roma (824), così come fece Ludovico II. L’indebolimento e poi la dissoluzione dell’Impero carolingio contribuirono tuttavia, più a lungo termine, ad aumentare l’autonomia papale. In questo contesto, emersero, specie per opera di papa Niccolò I (858-867), una serie di affermazioni dottrinali che preludono al modello della teocrazia papale.
L’anarchia feudale e il secolo di ferro del papato
Con la rinascita dell’Impero a opera di Ottone I (962), l’autorità politica poté riaffermare la propria sovranità in Roma, e s’ingerì quindi nuovamente nella nomina del pontefice. L’autonomia papale, inoltre, già da tempo era gravemente condizionata dalle pressioni delle famiglie dell’aristocrazia romana, che tendevano a impadronirsi del controllo del soglio pontificio a proprio vantaggio. Questa situazione perdurò sotto Ottone II e III, anche se il papato non perse del tutto il suo prestigio e riuscì a esercitare più volte un’azione energica ed efficace nell’ordine ecclesiastico e civile. Ma gli scandali dell’ultimo papa della famiglia dei conti di Tuscolo, Benedetto IX, spinsero all’intervento l’imperatore Enrico III che, fatti deporre Benedetto e i suoi competitori, ottenne dai romani la dignità di patrizio e il diritto di designare in futuro il papa all’elezione del clero e del popolo (1046). Si ebbe così una fase di papi tedeschi (1046-57) strettamente legati all’Impero.
La riforma della Chiesa, la lotta delle investiture e le crociate
Enrico III era mosso non solo da intenti imperialistici, ma anche dall’esigenza di promuovere un rinnovamento della Chiesa, già toccata dal movimento riformatore di Cluny (X secolo). Quest’ultimo, che era volto inizialmente a riportare le istituzioni monastiche agli ideali originari, si estese all’intera Chiesa, nel tentativo di restaurarvi la disciplina antica e di liberarla dai condizionamenti politici, attraverso la lotta al concubinato e alla simonia. Ciò comportò una crescente opposizione dei riformatori religiosi al potere regio, che disponeva delle alte cariche ecclesiastiche. In questo contesto, alla morte di Enrico III (1056) si ebbe una grave crisi dell’autorità imperiale, che preludeva al conflitto fra papato e impero per le investiture. Con il decreto di Niccolò II (1059) che riportava l’elezione del papa all’interno del solo collegio cardinalizio, il papato riuscì infine a svincolarsi dalla soggezione all’impero.
La riforma fu continuata da Gregorio VII e dai successori, fino a giungere all’affermazione del primato romano all’interno della Chiesa universale e della supremazia dell’autorità pontificia su ogni altra forma di potere. Con il Concordato di Worms (1122), a conclusione della lotta per le investiture, il papa riconobbe la sovranità dell’imperatore sui beni temporali e questi la sua incompetenza riguardo a quelli spirituali. Il papato ne uscì rafforzato, riuscendo a ingerirsi nelle faccende delle varie Chiese d’Occidente e a proclamare la propria autorità su di esse. Diminuito il potere regio nell’assegnazione delle alte cariche ecclesiastiche, si allontanava il pericolo della formazione di Chiese nazionali e il pontefice assumeva una maggiore capacità di controllo nella nomina dei presuli. Immediatamente prima della lotta per le investiture, la Chiesa di Roma aveva subito però lo scisma con la Chiesa bizantina (1054), che aveva gravemente minato la sua pretesa di essere istituzione universale. Da allora il progetto di riunificazione farà sempre parte integrante della politica papale, senza tuttavia che si raggiungessero mai risultati permanenti e concreti, se non quelli effimeri derivanti dall’espansione occidentale in Oriente (le crociate) o dalle richieste bizantine di aiuto. Le crociate, in particolare, furono un momento capitale nell’ascesa politico-ecclesiastica del papato, che con il tempo riuscì a dilatarne gli obiettivi fino a utilizzarle contro tutti i nemici esterni e anche interni della cristianità.
Papato, impero e comuni: l’apogeo della teocrazia papale
Dopo il Concordato di Worms, per circa un trentennio papato e impero non si osteggiarono, anzi furono alleati sia contro il potere normanno in Sicilia, sia contro il comune romano sorto nel 1143 sotto la guida di Arnaldo da Brescia in opposizione a Innocenzo II e successori. Papa Adriano IV, nel quadro della sua lotta anti-comunale, decise di accordarsi con il restauratore del potere imperiale in Italia, Federico Barbarossa, e lo incoronò nel 1155. Pontefice e imperatore, tuttavia, ben presto finirono per entrare in conflitto fra loro, sia a causa delle relazioni esistenti tra il papato e il vassallo Regno di Sicilia (al cui controllo Federico aspirava), sia per l’ingerenza imperiale nelle elezioni episcopali in Germania. La lotta, che s’intrecciava strettamente con il disegno di egemonia politica del Barbarossa in Italia, solo nel 1177 trovò una soluzione: l’imperatore riconosceva il nuovo pontefice Alessandro III e rinunciava al governo in Roma, in cambio veniva assolto dalla scomunica .
Il contrasto risorse quando Federico assicurò alla sua casa il Regno di Sicilia mediante il matrimonio del figlio Enrico con Costanza d’Altavilla. Inoltre, l’elezione di Innocenzo III (1198), prosecutore dell’opera di sistemazione teologica avviata con la Riforma gregoriana, accentuò lo sviluppo teocratico della concezione del potere papale. Egli ribadì il diritto d’intervento nelle elezioni imperiali e di deposizione dell’imperatore e degli altri sovrani; affermò la sua sovranità sul Regno di Sicilia e su altri regni europei; rafforzò l’autorità pontificia sui vescovi e l’ingerenza nella loro elezione. Con lui s’impose anche il principio della lotta armata contro l’eresia , a cui seguì la costituzione dell’Inquisizione, posta da Gregorio IX alle dipendenze del papa (1231). In questo periodo sorsero anche gli Ordini dei Francescani e dei Domenicani che divennero presto una presenza fondamentale in seno alla Chiesa.
Il declinare della teocrazia papale: i pontefici, gli angioini e la Francia
Finite le lotte con l’impero, il papato sembrava all’apice della sua potenza. L’organizzazione ecclesiastica era più forte e accentrata; l’ingerenza nella nomina dei vescovi e nelle questioni a essi relative divenne sempre più ampia e si estese al conferimento dei benefici ecclesiastici; infine, l’invio più frequente di legati che avevano la preminenza sui vescovi locali accrebbe ulteriormente il potere papale. Manifestazione e strumento di questo potere fu lo sviluppo del diritto canonico. Se già il Decreto di Graziano (ca. 1150) aveva sancito l’affermazione canonica della superiorità delle norme emanate dal pontefice, la teologia scolastica formulava con Tommaso d’Aquino la dottrina dell’infallibilità del papa nelle definizioni dogmatiche. Tuttavia, Chiesa e cultura religiosa stavano nel contempo perdendo la loro posizione di monopolio ideologico, soprattutto a causa di un processo di laicizzazione della cultura che avveniva attraverso le università, sorte intorno al 1200. Parallelamente, con la formazione degli Stati monarchici, si stava affermando una politica che trovava elementi per la propria legittimità in principi non di ordine religioso-ecclesiastico. E ancora, all’interno della stessa comunità religiosa persistevano fermenti di opposizione anti-papali o addirittura ereticali.
Sul piano politico, il periodo era segnato dallo scontro del papato con i re di Francia, dopo che la Chiesa aveva favorito l’ascesa degli Angiò in Italia meridionale. Questi avevano subito sviluppato una politica imperialistica che minacciava gli interessi dello Stato della Chiesa e che, per i legami dinastici, trovava appoggio proprio nel Regno di Francia. Dopo fasi alterne di tentativi di contenimento o di politiche di alleanza da parte di alcuni papi, sotto Bonifacio VIII (1294-1303), che aveva un programma politico fortemente teocratico, si giunse allo scontro diretto con il re Filippo IV il Bello: la Chiesa francese si schierò con il sovrano, il pontefice fu sconfitto e umiliato e il papato si avviò così verso la fase della cosiddetta “cattività avignonese”.
Il papato avignonese e lo scisma d’Occidente
Due anni dopo la morte di Bonifacio, l’elezione di un cardinale francese, Clemente V (1305), portò al trasferimento della sede papale ad Avignone, ove rimase sino al 1377. In questo periodo, pur se i pontefici fecero più volte una politica diversa da quella francese, è indubbio che essi furono fortemente soggetti alla sua influenza. Nel complesso, però, si può anche individuare una convergenza tra papato e monarchia nel perseguire obiettivi politici complementari: il primo, infatti, teorizzava un’Europa guelfa la cui direzione era affidata al papato stesso, ma nel contempo anche al Regno di Francia.
La lunga residenza avignonese fu comunque motivo di diffusione di atteggiamenti critici da parte dei contemporanei e di riaccensione di tendenze ascetiche e spiritualistiche di mistici e predicatori, laici e chierici, contro la corruzione della Chiesa. Ma va osservato che il fasto e la scarsa moralità s’inquadravano, in sostanza, nel fenomeno della trasformazione della Curia pontificia secondo i modelli delle corti regie, così come avveniva del resto per la politica finanziaria, perfezionatasi in un articolato sistema di tassazione del clero e in un forte incremento delle riserve papali grazie al conferimento dei benefici.
Per riequilibrare i difficili rapporti con il potente Regno di Francia, il papato tentò inizialmente di trovare appoggi nell’impero. Ma l’elezione di Enrico VII (1308-13) e la sua spedizione in Italia non furono di aiuto, perché tutto il movimento guelfo italiano si schierò contro di lui. Successivamente, papa Giovanni XII e i successori si opposero all’elezione di Ludovico il Bavaro (1314-47), sostenendo un lungo conflitto che contribuì a sviluppare tendenze antipapali in Germania e altrove. La lotta contro l’imperatore s’intrecciò poi con quella contro i ghibellini italiani, dei quali i pontefici non riuscirono mai ad avere ragione.
Successo temporaneo ebbe l’opera di restaurazione del cardinale Gil de Albornoz (1353-66) a cui seguì il primo ritorno a Roma da Avignone (1367-70) con Urbano V. Il successore, Gregorio XI, tentò di rafforzare e di estendere la dominazione pontificia nell’Italia centrale, ma ciò provocò una ribellione appoggiata da Firenze (guerra degli Otto Santi, 1376-78). Tuttavia, il papa decise nel 1377 il rientro definitivo, andando così incontro allo Scisma d’Occidente (1378-1415): contro Urbano VI il partito francese, maggioritario nel sacro collegio, elesse infatti l’antipapa Clemente VII (1378), che si ristabilì ad Avignone. Si ebbero quindi due papi che risiedevano l’uno in Francia e l’altro in Italia. La necessità di trovare una soluzione dette forza alla teoria conciliare, secondo cui l’autorità del pontefice era subordinata a quella del Concilio generale della Chiesa. Si tentò di applicarla invano con il Concilio di Pisa (1409), e soltanto in quello di Costanza (1414-18) si giunse all’elezione di un solo papa, Martino V (1417), che venne riconosciuto universalmente. Ma il pontefice rifiutò di accettare la superiorità conciliare e lo scontro scoppiato tra il nuovo Concilio di Basilea (1431-49) ed Eugenio IV finì con la vittoria di quest’ultimo.
Da questo difficile periodo la supremazia papale all’interno della Chiesa, con la sconfitta dei conciliaristi, uscì dunque salva. Si aggravarono però le condizioni della Chiesa stessa, che necessitava di un profondo rinnovamento. Già in quegli anni le correnti critiche e di opposizione al vigente ordine di cose ecclesiastico erano sfociate fuori d’Italia in movimenti riformatori radicali, non solo religiosi, ma anche politici, quali quello di John Wycliff (morto nel 1384) in Inghilterra e di Jan Huss (bruciato nel 1415) in Boemia.
Il papato nel Rinascimento e le invasioni straniere in Italia
Prima cura del papato dopo lo scisma fu la ricostituzione del dominio temporale, che si andò trasformando in principato sul tipo degli altri italiani. Fu un’evoluzione difficile per le caratteristiche profondamente diverse dei territori riuniti sotto il suo controllo, la mancanza di un centro solido e sicuro, la discontinuità del governo, le tendenze nepotistiche dei papi, spesso contrastanti con gli interessi dello Stato. Si mantennero a lungo signorie locali e tentativi da parte dei condottieri di formarsi principati propri. Comunque, nel XV secolo i pontefici s’impegnarono sempre più nel partecipare attivamente alla politica dei grandi Stati italiani.
Se nella guerra fra Angioini e Aragonesi per il Regno di Napoli il papa si limitò a sanzionare i fatti compiuti (1442), Niccolò V si adoperò per l’accordo fra i principati italiani (1454), anche in vista del pericolo turco. Sisto IV (1471-84) conferì al suo pontificato un carattere assai più mondano che spirituale; mentre Innocenzo VIII (1484-92) riprese vanamente l’offensiva contro la monarchia aragonese. Strettamente coinvolto nelle vicende politiche e militari che ebbero per protagonista l’Italia, insieme alle maggiori potenze europee, a partire dalla fine del ‘400, il papato, fallito il tentativo di Cesare Borgia, figlio di Alessandro VI, s’impegnò direttamente nella costituzione di un forte dominio politico nell’Italia centrosettentrionale sotto la guida personale di Giulio II (1503-13), che sostenne anche la formazione della Lega di Cambrai contro l’unico Stato importante che rimaneva indipendente in Italia: Venezia. Leone X (1513-21), alleandosi con Carlo V contro Francesco I, ottenne Parma e Piacenza, mentre Clemente VII, rovesciando gli schieramenti per unirsi agli altri principi italiani nel tardo tentativo di resistenza alla supremazia asburgica, provocò il sacco di Roma (1527), segnando la fine della politica attiva del papato in Italia, fine suggellata dal trattato di Barcellona (giugno 1529) con Carlo V e dall’incoronazione del medesimo a Bologna (febbraio 1530). Il sacco di Roma segna altresì per il papato la fine del Rinascimento. Ai magnifici esiti raggiunti in quest’epoca nel campo delle lettere e delle arti il papato contribuì largamente, orientato in questo dagli interessi e dalle volontà di pontefici quali Niccolò V e Sisto IV, lo stesso Giulio II e Leone X (mecenatismo; committenze ai maggiori pittori e scultori da Michelangelo a Raffaello; raccolte di codici, di antichità classiche e di opere d’arte; grandi cantieri, come il nuovo San Pietro e la Cappella Sistina).
Riforma e Controriforma
La rinuncia a una politica attiva italiana compiuta dal papato fu dovuta anche alla nuova situazione politico-ecclesiastica creata dalla Riforma con la nascita delle Chiese protestanti. Durante il Rinascimento non si avviò una riforma ecclesiastica, sia perché i papi erano troppo intenti ad altre cure, sia perché il movimento riformatore, fondendosi con quello conciliare, aveva assunto un atteggiamento ostile alla Curia, reclamando la limitazione del potere e della ricchezza del papato, che era perciò ben deciso a contrastarlo. La vittoria sul conciliarismo il papato parve ottenerla con il V Concilio ecumenico lateranense, in cui venne proclamata la superiorità del papa sul Concilio (1516); ma l’anno successivo Lutero iniziava la sua predicazione. La rivoluzione protestante si rivolse in prima linea contro il papato, negandone l’istituzione divina e impugnando tutta la costituzione ecclesiastica che legittimava il suo primato in campo spirituale e temporale. Contro il protestantesimo il papato si appoggiò alla forza politica e militare dell’impero e della Spagna, non senza che l’alleanza fosse indebolita da contrasti nella politica italiana (conflitto tra Paolo III e Carlo V per Parma e Piacenza; guerra di Paolo IV contro Filippo II). L’impero non riuscì a domare la rivoluzione protestante e dovette adattarsi a riconoscere la nuova divisione religiosa con la pace di Augusta (1555), contro cui riuscì inefficace l’opposizione papale. L’azione religiosa del papato contro la Riforma culminò nel Concilio di Trento (1545-63) e nell’organizzazione di un apparato repressivo (Inquisizione, Indice), mentre all’interno della Chiesa di Roma la Riforma cattolica o Controriforma fu proseguita sistematicamente ed ebbe risultati notevoli. Tanto nella lotta al protestantesimo quanto nel rinnovamento interno, il papato trovò strumenti efficaci nei nuovi Ordini religiosi, nei Gesuiti prima e nei Cappuccini poi. Entro l’ambito del mondo cattolico esso, ormai largamente immune dai gravi abusi del Rinascimento, accrebbe il suo prestigio religioso e la sua autorità direttiva e accentratrice: il Concilio di Trento si svolse sotto la direzione e il controllo papale e al papato fu affidata l’approvazione, interpretazione e applicazione dei suoi deliberati. Un nuovo larghissimo orizzonte in cui dispiegare le proprie capacità di azione pastorale e d’intervento, anche politico, si aprì con le missioni extraeuropee. Il pontificato di Gregorio XIII (1572-85) può esser considerato come l’apogeo della Controriforma. Fallirono tuttavia gli ultimi tentativi (in Francia e in Inghilterra) di far prevalere, in nome della condanna dell’eresia, l’autorità papale su quella regia; ma in Francia con la riconciliazione di Enrico IV fu assicurato il principio della suprema autorità pontificia sulla Chiesa e il mantenimento di una grande potenza cattolica, che giovò al papato anche per sottrarlo al predominio spagnolo.
Il Seicento
Il più ambizioso programma del papato sarebbe stato quello di riunire Borboni e Asburgo nella lotta contro l’eresia, ma il piano fallì di fronte all’inarrestabile laicizzazione degli Stati nazionali, per i quali la vita politica e sociale si ancorava sempre più a sistemi di valori indipendenti da quelli religiosi e spirituali. Così nella guerra dei Trent’anni il papato dovette accettare l’alleanza della Francia cattolica con il mondo protestante; anzi in qualche momento la stessa politica di Urbano VIII (1623-44) parve più favorevole al blocco antiasburgico. La pace di Vestfalia (1648), nonostante le proteste papali, ribadì la divisione confessionale estendendo definitivamente al calvinismo la posizione paritetica riconosciuta al luteranesimo e sancì tutta una serie di secolarizzazioni di territori ecclesiastici.
Se la laicizzazione giocava a danno del papato nelle relazioni internazionali, l’assolutismo regio ne comprometteva l’autorità entro i singoli Stati cattolici. Il papato ebbe una lunga serie di lotte contro quello che fu detto cesaropapismo spagnolo: particolare oggetto di controversia fu quell’insieme di privilegi che il re di Spagna si attribuiva in Sicilia come erede dei re normanni (“monarchia sicula”). In Francia la monarchia, da Richelieu a Luigi XIV, contrastò il protestantesimo sino a metterlo completamente fuori legge (revoca dell’editto di Nantes, 1685), alleandosi con il papato romano contro il giansenismo; ma affermò altresì i principi del gallicanesimo regalistico, di cui manifestazione solenne fu la dichiarazione del clero gallicano (i “quattro articoli”) del 1682, che proclamava l’indipendenza assoluta dei sovrani dal papa nelle cose temporali e la limitazione del potere ecclesiastico e dell’autorità dispositiva del pontefice per parte del Concilio universale, dei canoni e dei principi gallicani. Sostenendo radicalmente queste posizioni, funzionali anche a irrobustire l’assolutismo monarchico, Luigi XIV si pose in netto conflitto con i pontefici romani, accentuando la tensione soprattutto con Innocenzo XI (1676-89).
Nei secoli XVI e XVIII il papato continuò a considerare come uno dei suoi compiti principali la difesa e possibilmente la riscossa della cristianità contro i turchi, che nella prima metà del XVI secolo avevano raggiunto la massima espansione del loro dominio. Pio V contribuì in misura determinante alla formazione della Lega che procurò la grande vittoria di Lepanto (1571). A questa seguì un arresto nella politica espansionistica turca, che riprese poi a metà del Seicento con la conquista di Candia e con la successiva offensiva contro l’Austria. Il pontefice Innocenzo XI patrocinò l’alleanza della Polonia e di Venezia con l’Austria nella guerra per la liberazione di Vienna (1683) e la riconquista dell’Ungheria. Nel secolo seguente continuarono le guerre contro i turchi, ma l’azione del papato si fece assai meno intensa.
Come principato italiano il papato dalla metà del Cinquecento adottò una politica di relativa neutralità e autonomia, allargando i confini del suo Stato mediante l’annessione di Ferrara all’estinguersi del ramo legittimo degli Estensi (1598) e di quella di Urbino (1631) alla morte dell’ultimo Della Rovere.
Il Settecento e la Rivoluzione francese
Il XVIII secolo costituisce forse il periodo di più forte declino del prestigio del papato. Lo sviluppo del vasto movimento ideologico e culturale illuminista, che informò di sé tutto il Settecento, incise anche nel campo delle riforme politico-sociali, cui furono particolarmente sensibili alcuni sovrani che individuarono nei principi così maturati efficaci strumenti di modernizzazione e razionalizzazione delle strutture interne dei loro Stati, nonché di accentramento del pieno controllo di questi nelle mani del supremo potere laico da essi rappresentato. Accanto a molteplici riforme e trasformazioni operate a diversi livelli della società, l’Illuminismo dei sovrani portò anche a una maggiore tolleranza religiosa e alla riduzione del potere della Chiesa, che, sottoposta a un più diretto controllo da parte dello Stato, si vide limitare giurisdizione e privilegi e diminuire le proprie rendite. Queste iniziative colpirono il papato (alla cui autorità i sovrani mirarono a sottrarre il più possibile le Chiese nazionali) e gli Ordini religiosi a lui più strettamente legati. La soppressione dell’Ordine dei Gesuiti segnò il momento culminante della lotta fra gli Stati riformatori e la Chiesa romana. Dopo l’espulsione dell’Ordine dal Portogallo, dalla Spagna, da Napoli e da Parma nonostante la resistenza di Clemente XIII (1758-69), che era particolarmente favorevole ai Gesuiti, l’Ordine fu abolito (1773) dal nuovo pontefice Clemente XIV. Le riforme ecclesiastiche si attuarono soprattutto in Austria per opera di Giuseppe II (1780-90), che dette nome al “giuseppismo”, forma estrema del giurisdizionalismo, e in Toscana per opera del granduca Leopoldo I (1765-90). L’indebolimento del papato si manifestò anche all’interno del principato ecclesiastico, che durante la prima metà del Settecento divenne a sua volta teatro delle ostilità in atto nell’ambito delle guerre di successione. Le grandi potenze disposero di Parma e Piacenza (passate dai Farnese ai Borboni) senza tener conto dell’alta sovranità che il papa rivendicava su di esse. Colpi più gravi ricevette il papato dalla Rivoluzione francese, in seguito alla quale il nuovo Stato provvide autonomamente all’incameramento dei beni della Chiesa francese, predisponendo una nuova organizzazione ecclesiastica (costituzione civile del clero) che eliminava quasi ogni dipendenza da Roma. Pio VI condannò il nuovo ordinamento e insieme con esso i principi della rivoluzione (marzo e aprile 1791); una parte del clero francese e del popolo non accettò la costituzione civile e si aprì una vera e propria guerra tra la Chiesa cattolica e il governo francese. L’azione rivoluzionaria antipapale giunse fino a Roma, con l’occupazione dello Stato pontificio e la proclamazione della Repubblica romana, di breve durata; Pio VI fu deportato in Toscana e poi in Francia (1798-99).
Dal XIX secolo ai giorni nostri
Mentre dopo il Terrore la vita politica e religiosa in Francia si normalizzava, accettando la separazione della Chiesa dallo Stato e la convivenza dei vari culti entro il diritto comune (persisteva accanto alla Chiesa romana quella costituzionale), la politica di Napoleone dette un impulso decisivo alla restaurazione del potere papale tramite il concordato stipulato nel 1802 con Pio VII, cui la coalizione antifrancese aveva nuovamente riconosciuto le sue prerogative temporali. Il concordato attribuiva al primo console, erede del re di Francia, il diritto di nomina dei vescovi, ma affidava all’autorità esclusiva del pontefice l’eliminazione del vecchio corpo episcopale. La politica cesaropapista ulteriore di Napoleone contro Pio VII, spogliato del potere temporale e deportato in Francia, non giunse però ad alcun esito duraturo ed ebbe termine con la caduta dell’Impero napoleonico.
e restaurazioni del 1815 trovarono i governi europei in atteggiamenti, nei confronti del papato, assai differenti da quelli tenuti nel secolo precedente. Essi cercarono l’alleanza con il papato, che poté far valere la supremazia in materia ecclesiastica attraverso la conclusione di una serie di concordati. Contro quest’alleanza di Stato e Chiesa si rivolsero i movimenti liberali e nazionali, ma con maggiore ostilità verso il primo che verso la seconda; e il cattolicesimo liberale, se fallì nella forma estrema di Lamennais con la condanna di Gregorio XVI (1832), sopravvisse in forma più temperata e giovò alla Chiesa, procurandole maggior favore e libertà di movimenti. In Italia esso si chiamò Neoguelfismo, acclamando Pio IX (1846-78), nel primo biennio di pontificato, campione della nazionalità italiana e della civiltà europea. Seguì ben presto, con gli avvenimenti del 1848-49, la rottura tra movimento nazionale italiano e papato, che subì la definitiva cancellazione dei suoi privilegi temporali con l’occupazione dei territori pontifici (1859-60) e poi di Roma stessa (1870), incorporati nel neonato Stato italiano. Anche nel resto d’Europa nella seconda metà del XIX secolo si ebbe un largo mutamento della situazione di favore goduta dal papato nei decenni precedenti: si moltiplicarono le confische di beni ecclesiastici, incamerati nei patrimoni pubblici, le legislazioni anticlericali (particolarmente in Francia) e le tensioni fra governi nazionali e papato. Contemporaneamente, però, all’interno della Chiesa, il potere del papato raggiunse il culmine. Abbandonate in larga misura dai governi le tendenze giurisdizionalistiche, sparita quasi ogni tradizione di Chiese nazionali, resi sempre più uniformi secondo le direttive romane culto e teologia, rinnovata in forme più solide l’influenza dei Gesuiti (restaurati nel 1814), il Concilio Vaticano I (1869-70) proclamò l’infallibilità pontificia in materia di fede e di morale e il potere ordinario di giurisdizione del pontefice su tutta la Chiesa. Lo svolgimento pratico ulteriore andò al di là delle stesse definizioni, tanto che la Curia romana poté regolare sovranamente tutti gli affari ecclesiastici di ogni singolo Stato, mentre la devozione per il papato crebbe in intensità e diffusione, manifestandosi nei pellegrinaggi a Roma, nella partecipazione alle udienze pontificie, nella solennizzazione della ricorrenza dei santi Pietro e Paolo, considerata come “festa del papa”. La soppressione del potere temporale aumentò la sicurezza del papato di fronte agli Stati e gli permise di dedicarsi interamente all’attività ecclesiastica. Anche a Roma, dopo i primi tempi di aspra ostilità fra Chiesa e Stato, la situazione sotto Leone XVIII si andò lentamente stabilizzando in un modus vivendi di fatto, che permise anche una vera e propria cordialità di rapporti sotto Pio X (1903-14). La Prima guerra mondiale segnò un periodo critico per il papato, sottoposto alle pressioni contrapposte degli schieramenti belligeranti. Benedetto XV (1914-22) mantenne un atteggiamento di neutralità politica e morale rimproveratogli dall’Intesa, adoperandosi, invano, per la pace. Al termine della guerra quasi tutti i governi trattarono con il papato per definire i rapporti con la Chiesa all’interno dei rispettivi Paesi, inaugurando così un periodo di crescenti e intense relazioni diplomatiche che contribuirono a rivalutare il ruolo e le funzioni dell’autorità pontificia. Rilievo notevole in questa serie di accordi, segnanti un vero rivolgimento rispetto al separatismo dell’anteguerra, ebbero i Patti del Laterano sottoscritti l’11-2-1929 tra il papato e l’Italia. Con essi si pose fine al conflitto esistente in materia temporale e si concluse un concordato che dal pontefice fu proclamato uno dei migliori. Le relazioni tra papato e regime fascista, attraverso qualche temporanea difficoltà, si mantennero ufficialmente amichevoli, mentre Pio XI, stipulato nel 1933 un concordato anche con la Germania hitleriana, manifestò successivamente un atteggiamento di aperta opposizione al regime nazista (enciclica Mit Brennender Sorge), raffreddando poi anche i rapporti con il governo fascista italiano.
Durante la Seconda guerra mondiale Pio XII (1939-58), pur non pronunciando condanne dirette del nazifascismo, enunciò ripetutamente principi che lo condannavano. Alla fine della guerra il papato trovò in Occidente un ambiente politico e morale propizio a un’ulteriore espansione della sua influenza, contribuendo a ciò anche il contrasto fra il blocco atlantico e quello sovietico. Nella dimensione di frantumazione e crisi di valori e di autorità che ha investito l’età contemporanea, e quindi anche la figura del pontefice romano, il Concilio Vaticano II (1962-65), voluto da Giovanni XXIII (1958-63), ha costituito l’evento di maggior rilievo degli ultimi decenni nella vita della Chiesa e dell’intera comunità cristiana. Riunito con l’obiettivo d’impostare un dialogo con il mondo non cattolico e rivedere strutture e ispirazioni della Chiesa, il lungo Concilio ha introdotto un autentico clima di rinnovamento all’interno di questa, formulando una proposta di esercizio del primato del pontefice entro un contesto di effettiva collegialità dell’intero corpo episcopale e sostenendo l’esigenza, per il papato, di un più fedele recupero dello spirito evangelico e di un reale avvicinamento ai grandi problemi della fede cristiana nella vita contemporanea. Muovendosi lungo queste direttrici, al papato di Paolo VI (1963-78) è succeduto quello, brevissimo, di Giovanni Paolo I, al termine del quale l’elezione di un vescovo non italiano dopo quasi 500 anni (Karol Wojtyla) ha comprovato la reale volontà di apertura maturata entro la comunità ecclesiale. E Giovanni Paolo II non ha certo deluso tali aspettative, dando al suo papato una carica fortemente innovativa sia da un punto di vista teologico sia pastorale. Tale volontà si è dimostrata anche con l’inaugurazione di una serie di grandi viaggi missionari nei cinque continenti e con un coraggioso progetto politico e diplomatico. Il suo accentuato rigore teologico ha provocato tuttavia, oltre che un raffreddamento del dialogo ecumenico, alcune tensioni anche all’interno del mondo cattolico. Nel 2005 è salito al soglio pontificio Benedetto XVI, oggi papa emerito dopo la sua rinuncia alla cattedra di Pietro. Il suo successore è Francesco, eletto nel 2013.